In questi giorni, per un motivo o per l’altro, ho riguardato le prime due puntate di Neon Genesis Evangelion e mi sono ricordato di uno dei (tanti) momenti perturbanti di questa serie-anime (la migliore di tutti i tempi, a scanso di equivoci), uno di quei momenti di smarrimento che poi ricorderò come bellissimi, come l’alba di una nuova era della (mia) mente.
All’inizio della seconda puntata (lanciata dal finale della precedente dove Misato urla “Shinji, non morire!”) si vede finalmente la prima battaglia di un Eva contro un Angelo, o meglio si vedono pochi secondi dove le cose vanno già malissimo, peggio di quanto qualunque spettatore potesse immaginare (“Non è il tuo braccio, Shinji!”) e poi silenzio. Una luce freddissima, una stanza di ospedale. Dov’è la battaglia? Il me ragazzino abituato a Dragon Ball e agli altri cartoni giapponesi, i cui combattimenti interminabili seguono schemi predefiniti, ha un attimo di spaesamento. Ho perso una puntata. Non ho capito qualcosa. Le vicende di Shinji e degli altri personaggi di NGE procedono come se niente fosse e solo alla fine dell’episodio verrà svelato l’esito del combattimento, relegato a un flashback, più trauma che altro. Ed ecco che si passa dallo smarrimento all’esaltazione, dal “ho saltato una puntata” al “allora si può fare anche così!”.
Inutile dire cosa furono gli ultimi due episodi della stessa Neon Genesis Evangelion.
Ci sono però altre opere che mi hanno perturbato allo stesso modo, dirompenti nella forma prima ancora che nel contenuto, mi hanno mosso al dubbio, all’incertezza su me stesso fruitore per poi portarmi oltre, allargando i confini del possibile o del fruibile.
Uno dei primi momenti di questo tipo fu senza dubbio 2001: Odissea nello spazio, visto alle elementari e quindi ancora senza molti preconcetti, né sui film né sulle opere di fantascienza in generale, ma i vari salti temporali mi fecero dubitare della cassetta vhs, fino a quando il viaggio luminoso e astratto mi fece dubitare di me stesso. Non capii nulla di quanto appena visto, tantomeno l’enigmatico finale nella stanza vittoriana, ma non importava: io avevo assistito a una nuova via dello scibile.
In tempi più recenti, Twin Peaks, in ogni sua stagione ma soprattutto nella terza, mi ha fatto rimanere a bocca aperta per la bellezza e l’assurdità di quello che stavo guardando. E dire che avevo già assistito a quasi tutte le precedenti follie di Lynch.
Cambiando media, mi colpirono in modo simile sia Poe che Lovecraft, ma soprattutto la Trilogia di New York, di Paul Auster, e quella senza nome, di Samuel Beckett. Gli incipit di Beckett sono memorabili, eppure i suoi finali sono qualcosa che di ultraterreno, brevi frasi che innalzano quanto appena letto a un livello irraggiungibile. Ricordo ancora quando, assimilate le ultime parole di Molloy, quasi piansi di commozione per quello che avevo letto. Un po’ lo stesso effetto me lo fecero le ultime parole del Signore degli Anelli, anche se in quel caso impiegai molto di più a capire perché e soprattutto cosa avessi tenuto fra le mani per un’estate intera (ero anche molto più giovane e forse si parla di un caso leggermente diverso dagli altri qui citati).
In musica potrei nominare facilmente Stravinskij, ma la verità è che il momento più vicino ai precedenti nei ricordi è l’ascolto della Downward Spiral di Trent Reznor: tutti quei layer di voci nascoste, tocchi gentili di piano a concludere sfuriate inorganiche, canzoni pop dai suoni prettamente industriali, dai testi viscerali, grida, melodie, e parole che riverberano in una storia, ancora una volta, che mi trascina in un vortice dal quale non uscirò più, se non tramite un finale che mi emoziona ancora ogni volta che lo ascolto. E poi quella scarica di rumore che vuol dire tutto. The way out is through.
A prescindere da qualunque giudizio di qualità, dalla loro carica innovativa, personale o storica, dal contesto nel quale sono state prodotte, rimarrò per sempre affezionato a queste opere, per avermi mostrato spazi inimmaginabili.