Di solito le mie letture procedono in maniera lineare, finito un libro sotto il prossimo, con pochi spazi per le letture in parallelo, eppure ultimamente mi capita il contrario. Temi e forme diverse, forse l’assenza del capolavoro che tiene incollato o l’approccio rizomatico (epilettico?) della lettura online che ormai mi ha divorato il cervello. L’inappetenza estiva scivola in mille rivoli di lingue e parole diverse.
Questo non mi impedisce di godermi le varie possibilità.
Ora come ora ho a mezzo: la raccolta di poesie in romagnolo di Baldini, il tomo Marcos y Marcos di saggi su Beckett (Testo a fronte #35), ho appena finito A labbra nude, racconti dall’ultima Cuba, mentre esploro in parallelo la guida di Cuba, inoltre sto leggendo anche Al tempo di papà di Taniguchi (fumetto splendido che finirò rapidamente) e soprattutto ho iniziato Danubio, di Claudio Magris, che mi porta in viaggio più lontano persino delle isole caraibiche. Un libro che mi aspettavo diverso, e che mi ha sorpreso positivamente. La prosa erudita ma mai pesante o sgradevole, anzi in qualche modo colloquiale, mi ha ricordato Saramago, la sua voce più che la sua prosa. Faccio un orecchio a una pagina su due (non amando le sottolineature, è questo il mio modo barbaro di interagire coi libri, cosa che forse mi fa sentire meno in colpa verso il testo e più verso l’oggetto-libro; dopotutto non sono mai stato un collezionista nel senso feticista del termine). I passaggi su cui riflettere, da rileggere e citare sono troppi, ne scelgo uno quasi casualmente per chiudere un post che vorrebbe riportarmi fra questi lidi e condurmi oltre.
Il viaggio è la fedeltà del sedentario, che ribadisce dovunque le sue abitudini e le sue radici e cerca di ingannare, con la mobilità nello spazio, l’erosione del tempo, per ripetere sempre le cose e i gesti familiari: mettersi a tavola, chiacchierare, amare, dormire. Fra i motti latini che adornano, con l’autorevolezza della lingua morta, le sale del castello di Sigmaringen, uno celebra l’amore del luogo natio, lo spirito residente, radicato nella propria dimora e libero dalla smania di uscirne: «Domi manere convenit felicibus», ai felici si addice restare a casa.
[Claudio Magris, Danubio, 1986,
Garzanti Editore 1997, p.52]