Il pensiero del suicidio arriva verso sera, quasi a orario fisso. A quest’ora è più attraente. Quando declina il giorno aumenta la sua forza di seduzione e penetra sotto la pelle come la linfa tropicale, ammorbidisce i muscoli, distende le viscere, trascina la testa verso le budella, dissolve le ossa, mi colma di ribrezzo dolciastro, abbandonarsi al quale è nauseabonda lascivia. Una cosa posso configgergli dentro: il mio affetto inquieto per mia madre.
Nonché la mancanza dei mezzi. Il revolver di mio padre: ma lo tiene in cassaforte. Ho mancato di procurarmene uno mio: di questi tempi è abbastanza difficile. Eppure è il modo più vantaggioso, a causa della sua praticità, la pulizia e l’indicibilmente semplice colpo, dopo il quale immagino un silenzio profondo e niente altro. Tutto prevede altro lavoro e tribolazione. Impiccarsi: la scelta della corda, poi un posto buono sotto il soffitto, poi la realizzazione del nodo e la prova — e poi ancora la sedia che devo pure cacciarmi di sotto? Poi lo scricchiolio — e qui non potrei più oppormi alla visione, a questa inevitabile scortesia che farei agli occhi dei miei cari. Povera mamma!… Oppure gettarmi sul Grande Viale. Ma il volo, il tempo di arrivare giù, la visione, come l’asfalto si avvicina ai miei occhi con un unico strattone e, poi, quell’urlo! — I farmaci, poi, mi fanno schifo.
Certo, anche la vita è un modo per suicidarsi: lo svantaggio è che dura formidabilmente a lungo.