La consapevolezza che non leggerò mai tutti i libri che vorrei leggere e neanche solo quelli già presenti in casa dei miei (da piccolo avevo la fantasia di leggerli tutti, anche quelli che non mi interessavano, per una mania catalogatrice/esploratrice, come se attraverso i libri potessi leggere anche la vita dei miei genitori o cose così, o come se quella libreria rappresentasse lo scibile umano e io potessi esaurirlo) si è aggiunta solo di recente alle mie angosce. Per questo apprezzo particolarmente quando trovo connessioni nelle mie letture, delle direzioni quasi, quando capita che un libro mi porti direttamente al successivo, creando una coerenza all’interno della mia vana esplorazione senza fine.
È questo il caso delle mie ultime due letture. La ricerca intermittente di Ionesco è un diario di appunti più o meno metafisici, scritto dal drammaturgo settantenne esattamente nello stesso 1986 in cui Magris pubblicò Danubio, la mia precedente lettura, dove tra l’altro Ionesco viene ovviamente citato, nell’ultima parte del viaggio sulle sponde del fiume, in Romania. Se poi ci vogliamo aggiungere dettagli di contorno, è lo stesso 1986 in cui si svolse il maxiprocesso di Palermo alla mafia, uscì Master of puppets dei Metallica, esplose Cernobyl, nacque il sottoscritto (in rigoroso ordine cronologico).
La ricerca intermittente era ovviamente già sul mio scaffale (un po’ per caso, trovata dal mio spacciatore di libri usati), ma mi è quindi stata indicata chiaramente da Claudio Magris, fra i tanti volumi ancora da leggere. Le sue pagine non mi deludono, i diari e le autobiografie mi affascinano da sempre, i diari più delle autobiografie, specie se di scrittori, specie se vecchi.
Il diario senile di Ionesco mi ricorda quello di Kertész, letto qualche tempo fa, mentre si distanzia da un Saramago forse più consapevole e in qualche modo rappacificato con se stesso, se non con il mondo. I due mitteleuropei sono più tormentati, e lo saranno fino alla fine, mi viene da credere. Mi viene da attribuire le differenze più alla geografia che all’anagrafica, ma non mi spingo oltre.
Ionesco è uno dei grandi scrittori/drammaturghi del secolo, eppure si sente sempre in difetto (verso la moglie, verso la figlia, verso Beckett), si interroga sul senso del proprio scrivere, e quindi del proprio vivere, stretto fra due estremi di vanità e terrore della propria nullità inconciliabili. La ricerca spirituale delle sue ultime parole mi sembra un tentativo vano, per quanto non saprò mai il risultato degli ultimi sette anni di Ionesco, e non mi interessa neanche più di tanto. La ricerca, da titolo, è la parte più interessante, i tormenti, gli stati d’animo di grandi scrittori che si sentivano piccoli uomini (quali alla fine, inevitabilmente, erano).
Mi emoziono quasi a vedere esplicitati i miei stessi dubbi, da persone che hanno vissuto più del doppio della mia vita, visto dieci volte le cose che ho visto, che hanno raggiunto vette per me irraggiungibili. Non so se sentirmi rassicurato o meno nel ritrovare le mie angosce anche in questi giganti della letteratura, né saprei dire se i punti di contatto (o di illusione di contatto) siano più imputabili alla sensibilità (alle mie velleità di scrittore mancato) o alla mia età mentale, oscillo anch’io fra la lusinga e la calunnia (che poi non vivrei l’accusa di anzianità come calunnia). Il rischio di patetismo è sempre dietro l’angolo, ma a un ultrasettantenne cosa gli importerà mai di sembrare patetico?
Guerra, malattie, suicidi, assassinii, prigione, vecchiaia. Dov’è finita la gioventù? Quegli scrittori, quei poeti, quei geni, quella giovinezza, la «giovane generazione», come si proclamava orgogliosamente, orgogliosa d’essere giovane, lontanissima dal pensare che esistessero la vecchiaia e la morte, e che fossero in attesa in fondo alla strada. Dove sono gli eternamente giovani, quelli che si ritenevano tali? Dove, infine, i creatori di capolavori immortali, «capolavori» dimenticati, sepolti, scomparsi in mezzo a decine di migliaia di altri capolavori, mucchi, mucchi, mucchi di quadri, di carta, di carte, di parole portate via dal vento, dal vento e dalle tempeste della Storia, o semplicemente dal tempo, voragine implacabile, capace di consumare, distruggere, lacerare, dissolvere tutto. Banalità, sì, banalità, verità. Verità che ognuno, ogni generazione riscopre, a poco a poco, con il medesimo stupore, la medesima disperazione, il medesimo smarrimento da secoldi, secoli e secoli. E anche questo, anche questa scoperta è una banalità. Verità, sbalorditiva banalità, inattesa verità. I minchioni che siamo.
[Eugène Ionesco, La ricerca intermittente, 1988,
trad. Gian Renzo Morteo, Ugo Guanda Editore, 1989]