E in realtà, in cosa mai è consistita la passione filosofica, quella dei filosofi più disparati, se non nel distacco dal contingente, dal mundus sensibilis e nel volgersi verso «ciò che è propriamente essenziale», il mundus intelligibilis? Effettivamente questo dualismo, ossia il tacito presupposto della legittimità di tale bipartizione, ha costituito la metafisica dell’Occidente la metafisica comune a tutti i filosofi; la premessa metafisica persino dei filosofi empiristi, perché se essi non l’avessero condivisa, mai avrebbero voluto stabilire l’empirismo quale principio e fondamento.
[…]
Per quanto sia in un certo senso vero che il filosofo «vive nel generale», l’attività filosofica, a differenza della mistica e del mero rituale della magica pronuncia dell’«Om», non può mai esaurirsi nella contemplazione dell’idea del «generale», della «totalità» e del «fondamento»; il filosofo in realtà deve sempre prender di petto qualche cosa, qualche cosa di specifico, qualche cosa di fondamentalmente distinto, qualche cosa appunto che egli investiga fino in fondo — insomma: la realtà stessa dell’attività filosofica comporta che il filosofo ignori l’essenza della filosofia nella sua formulazione intransigente: questo suo ignorarla è condizione della sua esistenza e della continuità della sua esistenza.
[Günther Anders, L’uomo è antiquato, Vol. I (Die Antiquertheit des Menschen, I), 1956,
trad. Laura Dellapiccola, Bollati Boringhieri 2022, pp. 19-20]