Se un romanziere avesse utilizzato questi piccoli episodi dei tasti rotti (o l’incidente della chiave spezzata il giorno del matrimonio), il lettore sarebbe costretto a prendene nota, deducendo che il romanziere ha cercato di fornire indicazioni sui suoi personaggi o sul mondo. Si può parlare di significati simbolici, o di senso nascosto, o più semplicemente di artifici formali (perché quando la stessa cosa succede più di una volta, anche se è arbitraria, suggerisce un disegno, e una forma comincia a emergere). In un’opera di narrativa, si presuppone che dietro le parole scritte vi sia un’intelligenza cosciente. Invece di fronte agli eventi del cosiddetto mondo reale non si presuppone nulla. La storia inventata consiste totalmente di significati, mentre la storia reale è scevra di ogni significato oltre se stessa.
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C’è anche la tentazione, uguale e contraria, di guardare il mondo come se fosse un’estensione dell’immaginario. Talvolta ad A. è accaduto anche questo, ma non gli piace credere che sia una buona soluzione. Come tutti, anche lui anela a un significato. Come quella di tutti, la sua vita è così frammentaria che ogni volta che scorge un rapporto fra due frammenti ha la tentazione di attribuirgli un significato. Il rapporto esiste: ma dargli significato, guardare oltre il semplice dato del suo esistere, vorrebbe dire costruire un mondo immaginario all’interno di quello reale, e lui sa che l’operazione non regge. Nei momenti di maggiore coraggio, ammette l’assenza di significato come principio fondamentale, accettando la necessità di vedere che cosa ha davanti (seppure, contestualmente, dentro di sé) e di dire cosa vede. Si trova nella stanza in Varick Street. La sua vita non ha significato. Il libro che sta scrivendo non ha significato. Ci sono il mondo e le cose che si incontrano nel mondo, e parlare a loro vuol dire trovarsi nel mondo.
[Paul Auster, L’invenzione della solitudine (The Invention of Solitude), 1982,
trad. Massimo Bocchiola, Einaudi 1997, pp. 150-152]