Sabato sono andato a visitare Liegi con la mia ragazza. O meglio, siamo andati a Liegi (che prima d’ora conoscevo solo per via del regista) per il (quasi) famoso Insert Name Festival. O ancora meglio, siamo andati all’Insert Name Festival per vedere Matt Elliott live (per la terza volta per quanto mi riguarda, ma è sempre un piacere).
Matt Elliott è il mio cantautore preferito ed è uscito da poco l’ottavo disco a suo nome (questa dicitura ha senso, vedi Third Eye Foundation): The Calm Before. Ma andiamo con ordine.
Liegi (o Liège, in francese) è una città piccola e misconosciuta, temevo al limite dell’inesistente (vedi Forlì), rivelatasi più popolata e viva del previsto, ma soprattutto una città con enormi problemi di parcheggio.
Risolti i suddetti e trovata la sistemazione (in piazza Commissaire Maigret!) e notata l’evidente “frattura sociale” (vedi telegiornali quando parlano del Belgio in questi giorni), siamo andati sull’altra riva della Mosa per trovare il Caserne Fonck e quindi l’Insert Name Festival.
Il Caserne Fonck non è altro che un capannone, coi classici tavolini fuori per i presenzialisti troppo snob per entrare davvero ad ascoltare i concerti, l’atrio con il kebabbaro vegano e il merchandising dei gruppi, e il salone principale, con palco, mixer e bar, nel solito ordine.
Arriviamo proprio mentre i Vandal X, fedeli al proprio nome, stanno spaccando tutto. Il volume è assordante, specie per le dimensioni del locale, entriamo nel salone tanto per, ma non è possibile rimanerci senza tappi per le orecchie (venduti all’ingresso per 50cent, ma allora perché non tenere il volume leggermente più basso?). Giriamo un po’ per il quartiere in cerca di qualcosa da mangiare, venendo cacciati da un pub di vecchi e finendo a mangiare pommes nel baracchino più squallido di Liegi.
Tornati al festival è ora dei Platonick Dive, trio italiano vestito anni ’90 che fa post-rock strumentale anni ’00 (e qui partirebbero un paio di divagazioni: 1. incredibile come ora ’00 sia innegabilmente vecchio, non solo per le scene musicali, sia nella mia memoria personale che in quella collettiva; 1b. in realtà “it’s so” si può dire anche di due anni fa, per la velocità con cui cambiano “le cose”, specie in ambito tecnosociologico; 2. al giorno d’oggi, specie live, si suona musica che viene da qualunque epoca del rock, e in generale la coesistenza di qualunque epoca artistica è proprio uno dei tratti distintivi del postmoderno in cui viviamo(?), quindi ecco, per dire che la discrizione di cui sopra non è in alcun modo dispregiativa, ma puramente descrittiva). E insomma, voci registrate, tastiere ambient, muri di feedback, esplosioni sonore, batterista impazzito (e scazzato dai problemi tecnici), magliette dei Nirvana (giuro), coda noise, tante belle cose anche se un po’ cliché.
Solo tre aspetti stonati:
1. il pubblico distante e freddino (applausi pochi e non sentitissimi, tranne che per il finale esplosivo)
2. il bassista/frontman che se ne va prima lasciando solo gli altri due a prendersi gli applausi
3. la musica del locale che riparte quasi senza interruzione tanto che il gruppo (il duo rimasto) si è preso gli applausi sulla musica del fonico, bah
Durante questo concerto però individuiamo (olte a un Matt Elliott un po’ infastidito) l’Idolo. L’Idolo è quel personaggione presente ad ogni concerto, quello che sembra capitato un po’ per caso ma che partecipa con troppo entusiasmo, inevitabilmente ubriaco e imbarazzante, a volte anche un po’ molesto (nel nostro caso non troppo, al massimo incita il gruppo a gran voce all’inizio di ogni nuovo pezzo e si fuma dei gran cannoni in prima fila alla faccia del divieto di fumare al chiuso).
Non usciamo neanche durante la pausa, nonostante le orecchie che fischiano, e rimaniamo a vedere le prove di Matt Elliott. Lui, la sua chitarra e i suoi due microfoni. E i Platonick Dive che sbaraccano dietro smadonnando in italiano.
Matt Elliott è probabilmente l’intruso in questo mini-festival: cantautore sui generis in mezzo a gruppi più o meno post-dark-metal-hard-core-noise-boh, insomma sicuramente la proposta più delicata di una scaletta piuttosto rumorosa (e non solo per i volumi assurdi, lo so mi sento vecchio da solo a lamentarmene). Infatti il concerto si rivela intimo e bellissimo, il pubblico si assiepa attorno a quell’omone ululante dai capelli brizzolati che riesce a evocare mostri e demoni interiori come nessun altro con la sua chitarra, il suo flauto e le sue pedaliere. Nonostante un po’ di caciara dal fondo non se la facciano mai mancare, il pubblico è attento e gli applausi sono calorosi e spontanei ad ogni “merci”. Nonostante il pubblico forse più numeroso della serata, l’atmosfera è più intima che mai e ci stringiamo sempre più attorno all’origine sonora vivente dei sogni (incubi?) sonori di cui siamo protagonisti. L’Idolo si siede direttamente sul palco, per guardare e approvare il cantautore da più vicino. Un paio di volte temo che gli spenga la canna sulla cassa o gli rovesci la birra sulla ciabatta, ma alla fine va tutto bene. Ci sono pezzi dall’ultimo album, ma non solo, e come ogni volta rimango quasi deluso quando Matt Elliott saluta tutti, ringrazia e se ne va. Un’ora è passata veloce come in un’altra dimensione e il risveglio è brusco, ne avrei voluto ancora. Ripenso ai pezzi che mi sarebbe piaciuto sentire (Dust flesh and bones) e ai cavalli di battaglia troppi lunghi e numerosi per essere eseguiti tutti, ma oltre all’ora di concerto non l’ho mai visto andare. Matt (mi sembra troppo intimo forse chiamarlo così, ma almeno qui, per amor di brevità, me lo concedo) non concede bis nonostante le rumorose richieste (anche da parte del sottoscritto), ligio alla scaletta del festival, ma lo incontro quasi subito fuori nell’atrio. Compro (o meglio, la mia ragazza mi regala) l’ultimo bellissimo vinile, con poster annesso e dedica. Matt è disponibilissimo e simpatico, ci facciamo una foto (dopo quella in Romagna 3 anni fa), chiacchieriamo un po’ del più o del meno, e finiamo anche per prendere un kebab vegano al baracchino. Nota: il kebab vegano dell’Insert Name Festival è sorprendentemente buono, oltre che leggero, devo ammetterlo.
Dopo Matt Elliott ci sono i Kokomo, altro gruppo strumentale post-rock-ambient o qualcosa di simile, ma che non ci interessa più. Abbiamo bisogno di mangiare e di una pausa. Sentiamo qualcosa, magari non è neanche male, ma bon, è andata così. Stiamo solo aspettando la seconda venuta del nostro signore di Matt Elliott, che infatti ci ha chiesto espressamente se rimanessimo anche per il dopo, preoccupato che le sue cose elettroniche e il dj set tunzo non corrispondessero ai gusti dei metalloni lì fuori. Ho anche rincuorato Matt Elliott dicendogli che c’era gente fuori per qualunque gruppo e che non si preoccupasse che era stato apprezzatissimo. Credo lo sapesse, ma fa sempre bene sentirselo dire.
Insomma, passano le ore e anche gli Aluk Todolo, gruppo Occult Rock (a quanto dice facebook) del quale sentiamo/percepiamo un unico granitico pezzo doom anche attraverso le porte chiuse della sala concerti. Nel frattempo:
1. veniamo impezzati da un altro personaggio bizzarro che si era già fatto notare per averci quasi rovesciato una birra addosso durante il concerto di Elliott (come lo devo chiamare per non ripetere sempre nome e cognome?),
2. una ragazza prova a raggiungere il bagno per vomitare ma fallisce dopo circa 20cm,
3. l’Idolo è entrato in fase down appoggiato al palco e mi ricorda mio nonno quando si addormentava davanti alla tv.
Poi arriva il momento: sistemano il tavolo da dj sul palco, Eric Bichon (il manager e vs dj per il dj set finale) esce dal banchetto del merchandising per piazzarsi dietro alla console del mixer, e Matt Elliott torna sul palco in una delle sue rare apparizioni nella veste di Third Eye Foundation.
I volumi in generale e i bassi in particolare sono davvero troppo alti, ma Third Eye Foundation è come deve essere: devastante. Passa in rassegna mezzo repertorio, da Still Life a Semtex senza lasciare un attimo di tregua (e silenzio) alle orecchie dei suoi ascoltatori. La cosa più bella in tutto questo è l’Idolo che si è ormai arreso alla sua condizione comatosa e si è steso sul bordo del palco per dormire meglio, con la testa appoggiata a una cassa spia. L’oretta di Third Eye Foundation si conclude con il remix live di un pezzo francese che non conosco, mossa piaciona per ingraziarsi il pubblico prima dell’inizio del dj set che parte come una continuazione diretta del live. Master Bichon (il dj manager) si sposta dal mixer alla console sul palco, prepara due bicchierini di assenzio e affianca infine il compagno di tour in una dj session che parte bella tunzereccia (e meno estrema del live di 3EF).
Ma ormai le nostre membra subiscono il peso degli anni, anche senza l’uso e l’abuso dell’Idolo, e capiamo che è giunto il momento di ritirarsi se non vogliamo fare la sua fine (dell’Idolo).
Serate e concerti come questi restituiscono alla musica (e alla vita?) la sua dimensione, il suo contesto nel tempo, istante vissuto e assaporato. Non più mero contorno sonoro della vita quotidiana, accompagnatrice distratta di grigie giornate d’ufficio, ma evocatrice altissima dei sensi, trasformazione di un attimo che sembra davvero poter sfiorare un significato inafferrabile.
Grazie Matt.
p.s.: altre foto della serata