da te questo e quello, a volte una lettera o una cartolina, messaggi talvolta di più pagine, talvolta solo di poche righe, che si mantenevano sul generico, affrettati e superficiali, ma comunque preziosi per me, perché da essi potevo sapere che esistevi, e con questo, senza dirlo, esortavi anche me ad esistere, visto che alla fine il peggio non era nemmeno accaduto, e anche che non volevi del tutto distaccarti da me, perché questo almeno lo dovevi a te e alla tua giovinezza, della quale io ero stato parte, proprio come tu della mia, certo, ci sono state pause più o meno lunghe, e nemmeno io ho risposto a tutto e subito, perché non volevo tormentare ulteriormente la mia speranza, già tormentata, di poter ricominciare, se non quello che avevo cominciato con te, ma qualcos’altro con un’altra persona e che ne valesse la pena, visto che ancora non avevano suonato le campane, non che fosse sera, e ppure c’era una specie di continuità, e come un ruscello sotterraneo mormorava sotto la superficie della mia disfatta, poi, una volta, ormai sono passati tanti anni, mi lasciasti intuire, a mezzo posta, che probabilmente a quel tempo ti eri sbagliata, ma ormai, per così dire, era tardi, poi in modo contraddittorio, ponesti in prospettiva una visita, ma alla fine non venisti, e non venne più nemmeno altro, né lettera, né cartolina, e da allora non so dove sei, cosa fai, con chi vivi, perché, eppure da allora è come se una volta per tutte sapessi tutto di te, e poiché è così, ormai non voglio più sapere niente.
[Imre Oravecz, Settembre 1972 (1972. szeptember)
trad. Vera Gheno, Edizioni Anfora 2019, p. 29]