La fine del mito

Ho storto il naso alla notizia del ritiro di Bolt a soli 31 anni, ma mi è dispiaciuto comunque non vederlo concludere la propria carriera sul gradino più alto, andando a infrangere il mito dell’imbattibilità.

Ho almeno un paio di motivi per non gradire la notizia del ritiro di Bolt:
1) abbiamo la stessa età;
2) fra il mito e l’uomo più forte di tutti i tempi ho sempre preferito il secondo. Umanamente apprezzo di più il campione che si mette in gioco finché gli è possibile, combattendo contro l’inevitabile decadenza fisica oltre che contro la forza di gravità e gli avversari. Un campione come Roman Šebrle, per dire. Il ceco non ha costruito un proprio mito (se non fra i decatleti), ma ha spostato il limite dell’essere umano più in là, allenandosi e gareggiando nella disciplina più estrema dell’atletica fino all’età di 39 anni. Per dire, il suo successore ha abbandonato la disciplina a soli 29 anni, pur dopo una carriera folgorante.

Ma Bolt non è “solo” un campione; come ha sempre dichiarato, lui non gareggia(va) per vincere ma per diventare leggenda. Per questo obiettivo non basta un titolo o un record: bisogna rimuovere ogni precedente, stracciare ogni paragone, battere record su record e soprattutto costruire la leggenda del super uomo, del mito imbattibile. Per qualche anno, è stato imbattibile per davvero; attraverso i titoli i record e gli anni, è divenuto un marchio vivente, idolatrato dal pubblico, l’unico atleta (di atletica leggera) più famoso del proprio stesso sport. Bolt ha costruito un immaginario comune, una proiezione di sé più grande dell’uomo stesso. È divenuto leggenda.
Gli spettatori occasionali, il pubblico degli stadi, la massa informe, non sentono davvero il bisogno di chi sposta il limite fisico dell’essere umano, ma cercano (almeno la prova di) un qualche tipo di trascendenza, l’annullamento di quel limite stesso. E Bolt è risucito a illuderli e diventare un idolo nel suo significato originario (e non quello degli youtuber).
Da qualche anno ormai però, la sua aura di imbattibilità si è incrinata, almeno per chi segue l’atletica con un minimo di cognizione di causa. È sempre riuscito a ottenere ogni titolo e proseguire il mito (rendendolo anzi ancora più solido nel tempo), grazie a una preparazione mirata e a un numero centellinato di apparizioni, ma ormai la maschera stava per cadere, era solo questione di tempo. Ed è per questo che Bolt si ritira, perché non può permettersi di diventare un campione qualunque, una gloria del passato che continua a correre più che dignitosamente contro giovani rivali inevitabilmente più performanti. Io credo inoltre che mantenere le aspettative proiettate nell’immaginario collettivo sia difficile anche a livello mentale oltre che fisico, da qui la mia (ulteriore) comprensione del ritiro.

L’atletica però non è il wrestling e la vita non è scritta da uno sceneggiatore di Hollywood, così questa volta il mito non si è compiuto: Bolt non è stato battuto solo dal giovane Coleman, ma il titolo è andato addirittura a Gatlin, relegando il giamaicano sul terzo gradino, a lui pressoché sconosciuto. Bolt è stato incapace di recuperare (del tutto) la fulminante partenza di Coleman o di replicare alla cavalcata di Gatlin, apparendo stanco più che deluso all’arrivo, impotente. Da qui il mio leggero dispiacere e la reazione scomposta del pubblico del London Stadium, esplosa in un coro di fischi per Justin Gatlin, la cosa più vicina a un villain che l’atletica abbia mai avuto, reo non solo del suo passato sportivo e non, ma anche (soprattutto!) di aver infranto il sogno del super uomo e/o di un lieto fine, ancora una volta.