DFW parlava della televisione nei primi anni ’90, ma mi risulta ancora più congruo e profetico pensando al presente delle comunicazioni ai tempi di internet.
E nella misura in cui addestra gli spettatori a ridere guardando personaggi che si demoliscono costantemente l’un l’altro, a considerare il sarcasmo sia come l’unica maniera di rapportarsi agli altri sia come la più perfetta forma d’arte, la televisione rinforza la propria distorta ontologia dell’apparenza: la prospettiva più terrificante, per lo spettatore ben addestrato, diventa restare esposto al sarcasmo altrui uscendone con giudizi di valore sorpassati, tradendo emozioni e debolezze ormai terribilmente passé. Gli altri diventano giudici: il crimine è l’ingenuità. Lo spettatore ben addestrato diventa ancora più allergico alle persone. Ancora più solo. La tv ha addestrato a puntino Joe V. a preoccuparsi di come potrebbe apparire agli occhi di chi lo guarda, il che rende le autentiche relazioni interpersonali ancora più spaventose. Ma l’ironia della televisione ha in mano la soluzione: il rimanere costantemente davanti allo schermo comincia ad assomigliare quasi a una ricerca necessaria, a un corso di perfezionamento di quella vacua, annoiata, disincantata espressione che Joe deve imparare a mantenere durante lo straziante viaggio che lo aspetta domattina sotto le luci abbaglianti della metro, dove folle di persone dall’aria vacua e annoiata non hanno un granché da guardare se non le facce gli uni degli altri.
[David Foster Wallace, E unibus pluram: gli scrittori americani e la televisione da Tennis, tv, trigonometria, tornado (A supposedly Fun Thing I’ll Never Do Again), 1997,
trad. Vincenzo Ostumi, Christian Raimo, Martina Testa, minimum fax 2011, pp.99-100]
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