Qualche passaggio che mi è rimasto impresso.
Pierre è indubbiamente il personaggio principale e fa un percorso filosofico-personale interessante, ma c’è da dire che aveva già capito quasi tutto, quando a un quarto del libro, ragionando sulla rivoluzione francese e gli avvenimenti storici conseguenti, pensa:
Chi aveva ragione, chi aveva torto? Nessuno. Ma giacché sei vivo, ebbene: vivi! Domani morirai, come potevo morire io, un’ora fa. Vale la pena di tormentarsi, quando non si vive che un istante, in confronto all’eternità?
Ma le citazioni migliori sono quelle dello stesso narratore, il quale non finge neanche di essere imparziale (Tolstoj si erge in ogni momento sopra ai propri personaggi e, per quanto cerchi di evitare un giudizio diretto, ci sif a più di un’impressione del suo pensiero), ma che anzi propone le riflessioni teoriche più interessanti. Una fra le tante è all’inizio della quarta parte del secondo libro:
Secondo la tradizione biblica l’assenza di lavoro – l’ozio – era condizione di beatitudine per il primo uomo avanti la sua caduta. L’amore per l’ozio ha continuato a sussistere anche nell’uomo caduto, ma la maledizione continua a gravare sull’uomo, e non soltanto perché dobbiamo guadagnarci il pane col sudore della fronte, ma perché, a causa della nostra conformazione morale, non possiamo essere al tempo stesso oziosi e tranquilli. Una voce segreta ci dice che, se siamo oziosi, siamo anche colpevoli. Se all’uomo fosse possibile trovare un modo di vivere in forza del quale, pur essendo in ozio, si sentisse utile e adempiente al dovere, ritroverebbe almeno un aspetto della felicità primordiale.
Tolstoj non si tira indietro davanti a niente e nessuno e qui testimonia come i luoghi comuni sui tedeschi (e non solo) siano più vecchi della Germania stessa:
Il francese può sentirsi sicuro di sé perché si crede personalmente, sia per doti fisiche che d’intelletto, irresistibile e affascinante, di fronte agli uomini come alle donne. L’inglese è sicuro di sé perché è cittadino del paese meglio ordinato del mondo; perciò, in quanto inglese, sa sempre ciò che deve fare, e sa che tutto ciò che fa, in quanto inglese, non può che esser ben fatto. L’italiano è sicuro di sé perché è irrequieto ed esaltabile, e facilmente si dimentica di se stesso e degli altri. Il russo è sicuro di sé perché non sa e non vuol sapere nulla, nella persuasione che nulla si può sapere. Il tedesco è sicuro di sé nel peggiore dei modi, nel modo più disgustoso e inesorabile, perché è ciecamente convinto di sapere la verità: una scienza, cioè, da lui stesso elaborata, ma che per lui è il vero assoluto.
Sui russi poi rincara la dose con affetto, citando
quel sentimento vago, esclusivamente russo, di disprezzo, per tutto ciò che è convenzionale, artificiale, umano, tutto ciò che la maggior parte degli uomini considera il maggior bene del mondo.
Per farla breve, vado direttamente a uno dei tanti paragrafi noti dell’epilogo storico-filosofico. Un’idea affascinante, pericolosa, intransigente, un bel riassunto del mito di Tolstoj:
Se si ammette che la vita umana possa essere guidata dalla ragione, si distrugge la possibilità stessa della vita.