Gioco suicida

L’inutilità si somma all’angoscia nei centri commerciali: asettici, ridondanti, aggressivi, inumani. Nei momenti di maggior ottimismo mi convinco che i motivi per rercarsi in un centro commerciale nell’era di internet diventino sempre meno e che, viceversa, siano destinati a sopravvivere quei rari luoghi che ancora vendono oggetti sfuggiti ai tentacoli della rete. Questo sarà sempre più difficile, ovviamente, ma mi voglio illudere.

Uno degli esempi più attuali e già abbastanza evidente è costituito dalle librerie. Quelle di catena sono ridotte a vendere gadget sgrammaticati e oggetti che dei libri hanno solo la forma: merchandising e poco altro, magari nascosto dietro a degli scatoloni, mentre campeggia vicino alla cassa l’ultimo tomo di Paolo Fox o dello Youtuber di turno. Queste librerie non hanno più senso di esistere perché offrono prodotti fagocitati da amazon e compagnia, senza essere in grado di offrire nulla di più (anzi). Quello che, almeno dal mio punto di vista di lettore/compratore compulsivo, sopravvive alla rete è proprio il piccolo negozietto di usati, rimasugli, fuori catalogo. L’attrattiva di questi luogo è data sia dalla presenza umana imposta dalle dimensioni di queste librerie (almeno nei paesi come Forlì), sia dalla competitività del prezzo, sia dalla possibilità di accedere in effetti a un catalogo diverso da quello di un qualsiasi store online.
Ovviamente la mia visione semi-ottimista si basa su una proiezione erronea delle mie abitudini su di una società che non mi rispecchia minimamente. Rimane il fatto che io non entro più in una libreria di catena da anni, se non per fare un giro annoiato, mentre uno degli appuntamenti fissi delle mie vacanze italiane è con quella stanza segreta nei meandri del centro storico, ricoperta di scaffali e libri catalogati solo fino a un certo punto e secondo criteri non sempre intelliggibili. Libri usati, fuori catalogo e soprattutto sorprese (qualche contemporaneo direbbe serendipity, qualcun altro che verrà nominato fra poco: caso). Proprio mentre sono in posizione precaria sulla scaletta in dotazione, sospeso fra un Bulgakov della Voland e un introvabile Sclavi, mi capita sotto gli occhi un libricino che avevo quasi dimenticato nonostante la mia mania di completismo: Gioco Suicida di Paul Benjamin.
In copertina il nome di Paul Auster è un po’ sfuocato, ma sulla costa c’è solo il cognome vero e non lo pseudonimo. Ci sta. Gioco suicida è un hard-boiled alla Chandler pubblicato sotto falso (cog)nome per provare a campare di letteratura senza scrivere qualcosa di intimo e proprio. Quasi un esercizio di stile. Questo almeno è quello che sapevo dalle varie interviste e informazioni al riguardo date dallo stesso Auster, a proposito del quale disse: “La mia carriera di scrittore di best-sellers iniziò e finì con quel libro”.
In effetti, nelle poche pagine di questo Gioco suicida si susseguono scene e personaggi fin troppo tipici di quel tipo di letteratura, ma tra le righe compare anche il nostro Auster in divenire e i collegamenti con i primissimi romanzi (specie il diretto successore Città di vetro) non mancano. Inutile dire che tutto inizia con una telefonata e che non procede in maniera del tutto lineare. Inoltre, Max Klein è un finto duro dai riferimenti letterari e musicali fin troppo colti e quell’arredamento composto da nove Torri di Babele fa suonare qualche campanello. Le frasi fatte e i cliché non mancano, ma quello che non manca è anche il finale aperto in pieno climax, senza una soluzione esatta dell’intreccio e del giallo. Piena tradizione noir, ma ancora più tradizione Auster pre-Auster. Il romanzo che non termina perché dopo Kafka i romanzi non possono più terminare (un’intuizione interessante di Girard), i protagonisti (rigorosamente in prima persona) non possono che sentire la propria voce affievolirsi e perdersi nel tutto di un’umanità feroce, alla ricerca della prossima incarnazione.
Le storie che non terminano di Auster non creano frustrazione ma meraviglia, desiderio, scoperta, perché la scrittura di Auster (lui è stato il primo a darmi questa sensazione così netta) lavorano a un livello superiore, pur non esplicitandolo (spesso). Io lettore mi appassiono tanto alla storia quanto a quella dello scrittore che la sta scrivendo, e quindi rivedo lo stesso Auster attraverso la sua bibliografia, un metatesto che procede attraverso i vari romanzi e la vita dello scrittore, come fosse un’opera/ricerca unica e (solo ora lo capisco) culminante in quel tomone di 4 3 2 1. Lo devo ancora leggere ma credo sia l’unica cosa che Auster potesse ancora scrivere dopo Diario d’inverno/Notizie dall’interno (sempre nell’ottica di rimanere fedele e coerente a una certa idea di letteratura/vita, idea sfidata con quel Sunset Park infatti un po’ forzato, apparentemente meno personale e più reale, in un contatto un po’ stridente, almeno alle mie orecchie).
In attesa di dedicarmi a quello che potrebbe essere l’ultimo libro di uno dei miei scrittori preferiti, sono tornato alle sue origini e ho scoperto quanto Auster fosse efficace anche come narratore di genere.

Mi alzai con la sensazione di avere assato la notte nel cucchiaio di una escavatrice. Erano le sette e mezza, e l’oscurità grigiastra dell’appartamento mi annunciava che la giornata sarebbe stata nuvolosa. Con l’entusiasmo di un ballerino di tip tap artritico mi lasciai scivolare dal letto e mi diressi a tentoni verso il bagno, dove aprii l’acqua della doccia e mi infilai in mezzo al vapore. Quando mi fui asciugato e iniziai a sbarbarmi mi sentivo finalmente all’atezza di fare domanda per il ruolo di appartenente al genere umano. Se avevo fortuna, magari mi avrebbero dato una parte di comparsa.