La settimana scorsa sono stato un giorno intero a letto, per malattia. Un evento raro che però mi ha permesso di leggere più a lungo del solito (anche più dei miei tragitti quotidiani in metro). Nella semioscurità della malattia ogni schermo era troppo luminoso e quindi una sofferenza. Le pagine e le parole invece sono sempre state un rifugio, anche se per la maggior parte del tempo ho dormito.
Durante questa giornata, ho letto un centinaio di pagine (quindi quasi l’intero libro) di Fame, di Knut Hamsun. Per tutto il pomeriggio si è creata una strana commistione fra il mio stomaco inappetente e quello vuoto dell’uomo affamato. Il fantasma senza nome e senza soldi che vaga per Christiania si trasferiva nei sogni che intervallavano la mia lettura a Parigi e Londra e Berlino, nel secolo scorso e quello precedente, prima e dopo la guerra, le guerre, un cercatore che prende in giro le proprie stesse trovate, invenzioni suggerite dalla fame e dalla volontà di non rassegnarsi ad essere uguale agli altri relitti che popolano le strade.
Se l’uomo del sottosuolo è l’archetipo del disadattato sociale, fin troppo cosciente della propria natura maligna, personaggio ricorrente nei migliori romanzi psicologici del secolo successivo, l’uomo affamato è l’archetipo e la parodia al tempo stesso dell’aspirante intellettuale straccione, che non si rassegna alla propria condizione materiale e ontologica, ma non è capace di abbandonarla in alcun modo. Orwell, Miller, Böll, Fante, Bukowski sono i primi nomi che mi vengono in mente, e ce ne sono sicuramente molti altri, ma la peculiaritá della Fame di Hamsun è la sua ambientazione vaga e appena accennata, quasi a formare un paesaggio interiore più che esteriore. La sua intercambiabilità nel tempo e nello spazio ne fa un romanzo definitivo che può davvero sovrapporsi a quelli dei sopracitati, anche senza l’ausilio di un sonno febbricitante.
Ma c’è dell’altro: ho sempre considerato la vecchiaia, la malattia, la povertà come le condizioni che più rappresentano la condizione umana (e qui tocca citare anche Beckett), anche per questo la lettura nelle mie condizioni mi ha avvicinato ancora di più all’agonia dell’uomo senza nome. Per questo, ho la tendenza ad apprezzare maggiormente i personaggi che versano nelle suddette, precarie condizioni, che siano economiche, fisiche o semplicemente esistenziali: sono loro le uniche persone non dico interessanti, ma vere. Il resto, per quanto ben architettato, è finzione.