esercizi di stile: cyberpunk

Mi inietto in un ciclotunnel con il mio terminal umano e arrivo nel luogo immaginato senza neanche scompormi in pixel. Nelle orecchie mi martella la musica futurista degli Haujobb, proiettandomi nella quinta dimensione.
Un uomo vestito completamente di pelle nera, senza personalità ma con più protesi che pori mi guarda come solo degli occhi artificiali possono guardare. Mi sento a disagio ma solo fino a che la sacca di dopamine nascosta nei miei organi interni non si scioglie per rilasciare il contenuto della droga nel mio organismo. Non capisco cosa voglia da me l’uomo in nero, di cui conosco solo il nome in codice FALSE, ma mi tuffo nel cyberspazio senza pensarci due volte. La droga altera le mie percezioni anche dove di reale non c’è nulla, ma d’altronde cos’è reale lo dicono gli impulsi che arrivano al mio cervello. E il confine fra il mio corpo e l’universo, informatico e non, non è mai stato così labile come ora. Blindspring si manifesta al mio fianco senza che io me ne renda conta e io le parlo come a un essere umano, anziché a un costrutto che forse risiede solo nel retro della mia mente. Mi allaccio a quanti più contatti possibili, digitandomi in ogni riquadro del cyberspazio da me conosciuto. Il riflesso di tutto ciò sulla schifosa realtà dove vivo si riverbera in ogni dispositivo elettronico a portata di mano. Nei vicoli i generatori di emozioni vanno in tilt e le illusioni croniche si trasformano in incubi cibernetici. C’è solo una parola che può salvarmi. La trovo e la riporto all’uomo vestito di nero, al quale nel frattempo sono spuntati altri tre occhi artificiali sul cranio rasato. Impianti illegali costosissimi sulla cui utilità ho grossi dubbi. Rimane impassibile mentre gli consegno quel che mi aveva chiesto, o meglio ordinato, come se io fossi agli ordini di qualcuno e non una variabile aleatoria del grande spazio che separa virtuale e reale. Non gli ho mai sentito pronunciare una parola. Non credo che mi ringrazierà.

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