Complici diversi fattori, fra i quali anche il trailer del nuovo film su The color out of space e la lettura del saggetto di Houellbecq su Lovecraft (Contro il mondo, contro la vita), ho deciso per una rilettura natalizia del Ciclo di Cthulhu.
Nel weekend ho recuperato Storia del Necronomicon, dove HPL inizia a fissare punti fermi del suo mondo narrativo, facendolo compenetrare al nostro, parallelamente al suo farsi sempre più preciso anche nei racconti più lunghi: praticamente worldbuilding.
E poi L’orrore di Dunwich: una variazione lovecraftiana del figlio demoniaco, raddoppiato e perverso. Buon racconto fino al finale, che però in questo caso non mi convince. Mi piace la solita narrazione per interposta persona (i contadini che guardano il canocchiale passandoselo e facendolo cadere nel fango è geniale), ma non mi piace la risoluzione per mano umana, troppo meccanicistica e “semplice”, come se davvero gli uomini potessero sfuggire agli incubi degli altri spaziotempi con le loro forze. Un punto forte dei racconti di Lovecraft è proprio la sudditanza dell’essere umano all’orrore inevitabile, col quale può interagire, al quale può assistere, ma niente di più. Se il mondo non collassa nel caos indescrivibile è per motivi altri e incomprensibili, se Cthulhu risprofonda con la sua città dalle geometrie non euclidee non è certo merito del marinaio sopravvissuto, il colore torna nello spazio per sua stessa decisione o per una qualche legge al di fuori dalla nostra portata. Inoltre la minaccia rimane sempre lì, sepolta in fondo a un pozzo o nel più profondo dei mari. Invece qui sembra semplicemente sventata… fino alla prossima evocazione ok, però comunque mi fa storcere un po’ il naso. Oltre alla rivelazione finale che ricordo come deludente anche alla prima lettura (ma queste non sono mai state il piatto forte dei racconti di HPL, neanche nel racconto che sto leggendo ora).
Rimangono le bellissime descrizioni ed evocazioni: Iä! Shub-Niggurath! Il Nero Capro delle Foreste dai mille cuccioli!