Weekend autunnali passati negli aeroporti dell’est Europa fra rumori di imperi che crollano e cellulari che squillano.
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roba mia
Esercizi di stile: geometrico
Inforco un telaio triangolare e spingo dei cerchi fino a quel parallelepipedo chiamato ufficio.
Tramite due piccoli cilindri schiacciati ascolto delle frequenze note come Wire.
Non faccio in tempo a rimuovere dal mio corpo dei solidi piuttosto irregolari, che il mio capo (un agglomerato di sfere poste una sopra l’altra) mi aggredisce con parole non euclidee. Non comprendo, ovviamente, finché non si parla di coordinate precise: applicazioni, documenti, analisi scritte.
Non ho nulla a che fare con queste figure, ma posso procurarmele digitando sui parallelepipedi a base quadrata nota come tasti. Incredibile come mi basti muovere le dita su questi solidi semoventi per ottenere le figure regolari richieste e inoltrarle al mio capo.
La sfera dalla quale esce la voce del mio capo reparto non è più rossa, ma anzi presenta irregolarità sulla superficie che potrei apostrofare come benevole, se solo questo aggettivo avesse un senso, geometricamente parlando.
Esercizi di stile: filastrocca (in rima)
Raggiungo l’ufficio in bicicletta,
fa freddo e non vado di fretta,
ascolto letture di Gianni Rodari,
con le sue rime irregolari.
Ad ascoltarlo passerei tutto il giorno,
ma mi trovo subito il mio capo intorno,
cosa voglia non capisco, chissà,
un documento, un’applicazione, alta priorità.
Subito scrivo al mio referente,
dopo tutto sono pur sempre un cliente.
Mi risponde e celere giro il documento,
il capo ringrazia, è molto contento.
Esercizi di stile: horror
Mi incammino per la strada ventosa con la mia bicicletta cigolante. Il vento ulula e mi strappa il cappello, non riesco neanche a sentire Marilyn Manson con le mie cuffiette. La bici sembra cedere verso la fine, vecchia e arrugginita com’è, ma infine riesco a nascondermi nel mio ufficio, giusto prima che un violento temporale si abbatta su di me.
Fuori imperversa il maltempo, i fulmini cadono più vicini di quanto mi aspetti, ma devo comunque accendere il computer della mia scrivania. Esito ancora un po’, tremante per i boati, quando salta la luce di tutto l’edificio. Fa anche più freddo di quanto ricordassi, per cui mi tengo il cappotto addosso. Una voce pare uscire dall’oltretomba, ma è solo quella gracchiante del capo reparto. Lo raggiungo nella stanza accanto, ma non vedo nessuno dietro alla scrivania. Le ombre si spostano ogni volta che un fulmine illumina il quadro della finestra, anche i mobili paiono ghignare e deridere la mia sorpresa ad ogni tuono che rimbomba nei corridoi. Mi guardo attorno tremante, e cerco umilmente il mio capo reparto. Una mano mi tocca la spalla, proprio mentre mi stavo chinando sull’antica scrivania.
È lui! Troneggia alle mie spalle e il suo sguardo corrucciato pare chiedermi conto di tutti miei errori, presenti, passati e futuri. Non dico nulla e lui si siede nella grande sedia di pelle, all’altro lato della scrivania intarsiata. Non avevo mai notato quella dansa macabra scolpita sulle gambe del tavolo, ma la mia attenzione viene subito richiamata dallo schiarirsi della gola del mio luciferino capo reparto. Anche seduto mi supera di una spanna abbondante e pare diventare sempre più grande mano a mano che rimaniamo in silenzio a guardarci. La sua ombra copre quasi tutta la parete e non ha bisogno di dirmi nulla per farmi capire che quello non è il mio posto. Non attendo che apra la bocca per andare a rifugiarmi nel mio posto di lavoro.
Le luci non sono ancora tornate, ma il mio computer è acceso. Ho ricevuto una mail misteriosa, in un alfabeto che non conosco. Guardo il contatto di chi me l’ha mandata, ma noto solo l’immagine di un uomo leggermente deforme. C’è nel suo aspetto, nel suo viso, qualcosa di anomalo che non riesco a identificare. Forse sono le due metà del volto troppo uguali, come se l’immagine fosse ottenuta specchiando solo mezza faccia. Guardo sul desktop e c’è l’allegato, senza che io mi ricordassi di averlo scaricato. Lo apro, impaurito dal contenuto, ma in realtà vedo solamente un file di testo vuoto. Non capisco perché, ma lo inoltro al mio capo, preso da un raptus che non comprendo.
Appena compiuto questo gesto senza senso, un altro fulmine mi risveglia dal torpore presomi non appena seduto davanti al mio pc acceso. Lo schermo si spegne di nuovo, l’intero ufficio fa eco al tuono che pare non finire più. Mi chiedo solo per un momento dove siano tutti i miei colleghi e perché oggi non si presenti nessuno, ma subito ripenso a cos’ho appena fatto. Corro dal capo reparto per attendere la sua rabbiosa reazione, cercare una scusa plausibile, o semplicemente provare a comprendere cosa stia succedendo al lavoro. Quando passo dalla sua porta, noto in un angolo un orologio a pendolo che indica le quattro di pomeriggio. Com’è possibile? Sono sicuro di essere tornato dall’ufficio del capo a metà mattinata, ed essermi seduto al mio computer solo per pochi minuti.
Non riesco comunque a fermare il mio slancio e mi trovo a bussare alla porta del mio capo reparto, senza più averne alcuna intenzione. L’anta cede alla seconda bussata. La stanza è di nuovo buia e vuota, sulla scrivania una candela, sicuramente per via delle luci fulminate. Mi avvicino cauto, senza vedere nulla oltre il mobile antico, e solo all’ultimo noto il volto gigantesco e pieno di ombre del mio capo fissarmi, immobile. Mi fermo anch’io, congelato da quello sguardo di fuoco. Non ho il coraggio di voltarmi e fuggire ancora, ma non ce n’è bisogno, perché questa volta la sua bocca gigantesca si apre.
Sembra aspirare la fiamma sul tavolo e con essa tutta la luce della stanza e forse dell’edificio intero, ma poi sbuffa due semplici parole di ringraziamento e congedo. Parole inaspettate, che cozzano con il suo sguardo e la sua espressione, ma non me le faccio ripetere due volte. Prendo la porta ed esco, salvo almeno per oggi.
Esercizi di stile: sballato
fa troppo freddogelo, non si capisce, navigo la bici in acque scure, per fortuna ci sono i cari vecchi Tangerine Dream a indicarmi la via e portarmi altrove, via dalla vecchia del piano di sopra che guarda sempre coi suoi occhi sballati come se non avesse mai visto una bicicletta di chi cazzo è sta bicistramba porca vacca me l’ha strarubata quello di sotto ierisera mentre gli sciallavo la roba ma poi gli lascio una testa di bojack nel letto. vez non ho studiato psicosomatominologia da freud a jung andata e ritorno per farmi cantare su per il naso dal boss che mi sminchieggia come fossi lo zerba della sua sborovilla. ti riposiziono le cose sulla scrivania con la tua bella testa di monitor se non mi sgnaghi subitamente le cose, che poi te la giro io la metamorfosi kantiana dell’essere e avere bacio testamento. e parla più chiarificatoriamente che non sono mica il mulo che viaggia nell’iperspazio e ti legge nella ment di stocazzo, e non farmi dire certe cose che poi trascendo e mi calo le braghe come fossi lenny kravitz che fa uno special mix con panda bear e sasha grey. non mi farmi dire certe cose che se mi riesco ad alzare da questa sediondola senza smocciolarmi il cosmo addosso poi te lo dico subito cosa mi passa fra i linfonodi intratendinei che per tutti i nei che ho potresti unirli e scoprire che ho la giocosa dipinta sulla schiena. altro che i tribalaggi di stocazzo che non lo so com’è che smuovi tutto neanche una ripresa del duemiladieci, e stai un po’ fermo chi sei charlis choplin? che faccia fai, dillo subito che sei un po’ stonato mi sa che non ti ha pigliato bene, non so te ma fuori fa un freddo del cazzo a jirare nudi con gummo che ti sale sulla schiena non è facile e finisci a mangiare pollo come non ci fosse un domani. poi ti viene a prendere e ti porta via la notte mi scoppia la testa che ho la pressione di una balena. torna al tuo posto e non mi guardorigliare manco fossi david lynchenberg che parla al contrario, e non dirmi grazie mi raccomando, basta che la metti sul giradischi altrimenti non riesco a stare fermo e poi ti divento triste e faccio un casino che quando piango poi vengono fuori le robe pejjiori e non se ne vanno fino a che non mangiano tutte le cose come quel fumetto di chierco da piccolo che non rientrava più nella televisione e non dirmi che non te l’avevo detto che rimangono i morsi su tutte le cose e io le cose non me ne frega niente ma speglila quel monitor quella televisiore non voglio che poi mi dici che non te l’avevo detto che mi dici it’s not my fault man non me lo dire mai, non me lo devi dire man, lo allappoggio qui e non quella bionda che se la scrivimacchina rispettava le geometrie euclidee non l’avrei fatto ma poi lei se ne viene fuori così che tutto era dentro di lei e io cosa potevo hai capito no cazzo e dai vai via, vai via per favore subito cazzo e non dire grazie che senti sto puzzo di chtulu se poi esce fuori qualcosa dal necronosmicon prima che arrivo al cesso non ci posso fare niente porja besgia
Esercizi di stile: Learco Ferrari, o quasi
Vado all’ufficio con la bicicletta, e intanto ascolto gli Offlaga Disco Pax, che io non so mica da dove viene questo nome, ma mi piace molto, perché mi ricorda un vecchio discorso, che ogni tanto faccio qualche discorso, anche pubblico, incredibile, non lo direbbe nessuno, e insomma una volta ho fatto questo discorso a Offlaga, che chissà, magari anche loro, quelli che suonano negli Offlaga Disco Pax, sono di Offlaga.
Quando arrivo, guardo quella lavagna di fianco al mio posto di lavoro, che c’ho scritto du kannst mich mal, che in russo l’avevo già scritto in un altro libro, Le cose non sono le cose, si chiama così quest’altro libro, e non posso scriverlo ancora, che se no dopo capiscono.
Learco, mi chiama il capo, che io questo qui non lo posso proprio vedere, ma le bollette di casa mi arrivano tutti i mesi, quindi devo andare a parlare con il capo, che poi si chiama Mastrangeli, ma non mi piace neanche come si chiama, devo andarci insomma, quando mi chiama.
E mi fa tutto un discorso sconclusionato, che io aspetto e lo guardo così, senza dire niente, fino a che non mi guarda anche lui così, senza dire niente, e rimaniamo un po’ così, tutti e due, senza dire niente. Poi lui mi dice: Learco, vedi un po’ tu cosa puoi fare.
Cosa vuoi che posso fare.
Torno di là, nella mia scrivania, e guardo un altro po’ la scritta che c’ho fatto sulla lavagna, che tutti pensano che sia una citazione da un libro tedesco, perché ho finito quelle dai libri russi. Invece mi metto lì e lo trovo anche quella roba là che mi ha chiesto Mastrangeli, ma non c’ho molta voglia di portargliela. Però siccome che le devo anche pagare quelle bollette che mi arrivano a casa tutti i mesi, torno di là da Mastrangeli e gli dico che l’ho trovata quella roba là che mi aveva chiesto.
E lui mi ha detto: sei stato anche veloce, Learco.
E io ripenso alla scritta, quella sulla lavagna, di fianco al mio posto di lavoro.
Esercizi di stile: chat (urban dictionary)
> too cold man 🙁
> same here
> brostep tunz
> yo
> da boss mi chiede solito doc reverse engineering
> wtf
> mail + polling >>> work
> gg
> polling foreva
> -.-
> arriva la roba! 🙂
> lol
> doc –> da boss
> ff
> thanks too fast XD
> top kek
tl;dr —> TIL da boss = lame
Esercizi di stile: compleanno
Oggi è il giorno del mio compleanno, ma vado in ufficio lo stesso, ascoltando la musichetta di Buon Compleanno.
Porto la torta e i pasticcini per tutti, ma il capo mi chiede comunque un lavoro. Una cosa da poco, un documento da richiedere a un’altra ditta di cui siamo clienti. Lo faccio prima della pausa pranzo, così poi possiamo festeggiare. Ho portato anche lo spumante.
Inoltro il documento e vado a vedere se va tutto bene, ma quando entro nell’ufficio del capo è tutto buio.
Le luci si accendono e…sorpresa! Ci sono tutti i miei colleghi che mi hanno preparato una festicciola lì nell’ufficio. Che carini! C’è anche il regalo, dentro una busta. La apro subito e… sono stato licenziato.
Bandcamp + 184
In questi giorni ho fatto anche la paginetta bandcamp.
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Esercizi di stile: product placement / pubblicità
Raggiungo l’ufficio sulla mia cara vecchia Bianchi, ascoltando i Korn col mio lettorino Creative (auricolari Senheiser). Che canzone? ADIDAS. Fa freddo, ma ho la mia giacca North Face e non temo niente e nessuno.
Arrivo in ufficio e accendo il mio Sony VAIO, ma subito vengo chiamato dal mio capo reparto. Ci vado di corsa, sulle mie comode Nike, e ascolto cos’ha da dirmi, tutto vestito Emporio Armani dalla testa ai piedi. Chissà se pensa di impressionarmi. Perché col suo discorso non lo fa di sicuro. A quanto pare mi devo occupare di un app per i nostri dispositivi Android, i cui costruttori non ci hanno ancora mandato l’analisi tecnica.
Non c’è problema, non ho neanche bisogno di accendere il mio Samsung S6 Edge per provarla. Cerco il profilo della ditta su Linkedin, trovo il programmatore referente su Xing e gli mando una mail precisa come uno Swatch (il Rolex è troppo). Mentre aspetto la risposta, studio i miei prossimi acquisti su Amazon e Zalando, ma il tipo è troppo efficiente.
Giro la mail al mio capo e vado a ricevere gli elogi e postarli su Twitter. Magari ci facciamo anche un selfie, con la mela del suo portatile in primo piano però.