Credo che questo istinto di perpetuare il lavoro inutile sia, alla base, solo paura della massa. La massa è composta (si snoda il filo del pensiero) da spregevoli animali che, se avessero tempo a disposizione, sarebbero pericolosi; ad evitare rischi, è meglio che siano sempre troppo occupati per pensare.
I nascenti giganti industriali, i loro banchieri e i loro alleati politici si opposero alle rivendicazioni morali dei produzionisti e, a partire dagli anni Novanta del XIX secolo, promossero una nuova ideologia secondo cui, al contrario, era il capitale, non il lavoro, a creare ricchezza e prosperità.
Ma la richiesta stessa di “tempoo libero”, benché comprensibile date le circostanze, ha avuto l’effetto di rafforzare implicatamente l’idea che, quando i lavoratori erano “in servizio”, il loro tempo apparteneva sul serio alla persona che lo aveva acquistato, un concetto che sarebbe apparso aberrante e vergognoso ai loro bisnonni, anzi alla maggior parte della gente vissuta prima di loro.
Negli anni Settanta, i due fattori hanno cominciato a prendere strade diverse, con le retribuzioni che restavano perlopiù ferme e la produttività che decollava come un razzo.
Direi che la pivazione di senso dei lavori veri e propri nonché l’espansione del settore senza senso più in generale sono in gran parte una diretta conseguenza del desiderio di quantificare il non quantificabile.
Un umano incapace di avere un impatto significativo sulla realtà smette infatti di esistere.
da Bullshit Jobs, di David Graeber, e cit. interne