Berlinale 68 – parte 3
Twarz – Małgorzata Szumowska (Competition)
La storia di un giovane metallaro che subisce il primo trapianto di faccia d’Europa è usata come indagine dissacrante dell’ipocrisia della Polonia rurale (come sineddoche di un mondo più vasto, ovviamente). Commedia nera che scorda il politically correct a casa e ne ha per tutti, in particolare per la chiesa (e i suoi uomini), per la quale l’unica cosa che conta è che venga realizzata la statua di Gesù più alta del mondo, opera grottesca in sé ma incredibilmente vera. Il protagonista poi passa da una disillusione all’altra col suo giubbotto di jeans con le patch dei Metallica e un sarcasmo che copre la rassegnazione. In tutto questo momenti comici incredibili a più livelli e riprese che giocano consapevolmente con la messa a fuoco, a volte in maniera artificiale/straniante ma non gratuita. Non c’è redenzione, salvezza, speranza, ma solo un Cristo gigante che si volta (letteralmente) dall’altra parte.
Probabilmente il miglior film fra quelli che ho visto in concorso, sicuramente il più divertente.
In den Gängen – Thomas Stubert (Competition)
Film tedesco ambientato fra le corsie (vedi titolo) di un magazzino/giga-supermercato. Le storie intime e semplici (a loro modo) di persone dimenticate dalla società ridanno loro un po’ di umanità, ma sinceramente mi aspettavo di più, o forse qualcosa di diverso. Temo che il problema sia più mio, nel senso che trovo un po’ inaccettabile nel 2018(?) cantare la poesia dei magazzinieri, ridere delle loro limitatezze/ottusità (quantomeno il pubblico in sala, che si sa, più crudeli dei tedeschi al cinema ci sono poche cose al mondo). In realtà il film richiama famose distopie in vari modi (Gilliam, ma anche Il settimo continente di Haneke (a proposito di spietatezza)), dipingendo una bella isola dei caraibi sul fondo della sala caffè o lasciando un puzzle incompleto della stessa isola sul tavolo di lei (con lui che prova a incastrare un pezzo, ma non trova quello giusto – direi che ci siamo capiti). Ma alla fine (nonostante -SPOILER- il suicidio di uno dei protagonisti) continua tutto come prima, come se non fosse successo niente, (in)consapevoli dell’impossibilità del proprio riscatto, anzi senza neanche un tentativo di riscatto.
Forse sono troppo severo o dipende dalla mia impostazione mentale più che dal film (ho letto in giro dei gran commenti positivi), ma mi è sembrata una distopia (in realtà concreta e reale, per nulla ucronica anzi forse persino ottimista) venduta come poesia degli ultimi, e quindi no.
Las herederas – Marcelo Martinessi (Competition)
Due signore paraguayane di mezz’età faticano ad accettare la caduta libera del loro stato sociale (alto borghesi dove lo scandalo non è la coppia lesbica ma accettare gli aiuti economici o lavorare), una in particolare, che si rinchiude a letto e nella propria apatia, mentre l’altra cerca di attutire il colpo anche per la compagna, tanto da finire persino in prigione per debiti. Rimasta da sola, Chela finisce per fare l’autista per delle vecchie aristocratiche in cambio degli “stessi soldi di un taxi” (scandaloso), cosa che la farà uscire dalla propria camera da letto e dall’abbandono a cui si era rassegnata, nuovamente sedotta (in tutti i sensi) da uno status che non si può più permettere. In tutto questo, continua la (s)vendita di mobili, oggetti e arredamenti della casa, un’eredità anacronistica e impossibile da mantenere, ma alla quale vendita Chela non si è ancora arresa.
L’epilogo risulta quindi inevitabile (col senno di poi): nonostante il ritorno della compagna, Chela non può più accettare la nuova normalità.
Film estremamente quieto e strano, dove i personaggi, oltre che tutte donne (non ricordo di aver visto un solo uomo sullo schermo), sono anche quasi tutti vecchi, (de)cadenti come l’aristocrazia paraguayana, rappresentata qui alla fine di un’epoca. Gli occhi spaventati della protagonista si guardano attorno per tutto il film senza accettare né l’una né l’altra realtà, come fosse un incubo anziché la vita quotidiana.
La Enfermedad del Domingo – Ramon Salazar (Panorama)
Un altro confronto sociale (madre aristocratica e figlia – abbandonata – che vive nei monti francesi, in una capanna), ma nonostante l’ovvio risentimento della figlia e l’inevitabile attrito fra le due protagoniste e i loro ambienti, il nodo della vicenda qui astrae dalle classi sociali per andare a scavare nel tormento umano. Ogni parola è essenziale, vitale (nel vero senso della parola), un grido quasi, anche quando non detta, ogni scenetta fra le due protagoniste lavora su più livelli, ogni inquadratura insiste su questo scontro su più livelli, dove il sociale rimane (giustamente) solo sulla superficie. Indagare oltre, fra le cavità degli alberi, nella foresta, è compito tanto della cinepresa quanto delle due donne.
La fine tragica non coglie di sorpresa ma conclude ineluttabilmente un percorso che costituisce uno dei migliori film che ho visto alla Berlinale di quest’anno.