Appunti sparsi sulla Via degli Dei



Collegare due città come Bologna e Firenze a piedi, partire e arrivare al centro di entrambe, aiuta a uscire dalla cartografia della modernità attraverso una geografia meno antropocentrica e più libera. Sembra quasi incredibile la facilità e continuità con la quale si fugge dallo schema urbano più astratto e si penetra nello spazio tridimensionale dei sentieri collinari, i boschi, i rilievi, un’orografia che conduce il viaggio nel tempo oltre che nello spazio. Nonostante si rispettino ancora sentieri, segni umani, indicazioni (in alcuni punti talmente rarefatti da sentirsi per la prima volta davvero fuori da qualunque tipo di autodeterminazione), questa via tiene aperta una possibilità e dischiude lo sguardo su una bellezza di dimensioni tali da non poter essere quantificata né racchiusa in una riproduzione qualsiasi. Paesaggi che incutono persino un certo timore reverenziale, per quanto ammaestrati, perché mostrano la distanza percorsa e da percorrere e mettono in prospettiva il singolo essere umano che prova a superarli con i soli mezzi del proprio corpo.

Ripercorrere una strada (o almeno parte di) antica duemila anni mette in prospettiva ogni gesto quotidiano, ogni edificio più o meno moderno (dove le epoche e i cambiamenti si misurano al massimo in decine di anni). Permette inoltre di rivivere trasmettere e mantenere (sulla propria pelle, nei propri muscoli) una memoria storica, evolutasi nel tempo, con le ere, con gli esseri umani, un tracciato che ha mantenuto il proprio senso di esistere attraverso i millenni, le popolazioni, le organizzazioni di potere, e tornare a dargli un senso anche ora, fuori dagli schemi logici della civiltà moderna e da qualunque piano urbanistico. Un luogo, una strada che non ha ancora ceduto alla mappatura digitale, fuori dalla gabbia di possibilità concesseci dalle nostre estensioni tecnologiche, e quindi non astraibile dal suo contesto e dai passi che servono per percorrerla.

Avere un obiettivo simile, così lungo e impegnativo (almeno per i nostri standard), così incentrato sulla propria persona, pone al di fuori del solito contesto spaziotemporale e sociale, restituisce un obiettivo e un senso di necessità ai propri gesti. Si vive al di fuori della storia, dal tempo, e unicamente nello spazio, nel qui e ora, nei dolori a muscoli e articolazioni, nella cieca concentrazione che va oltre alla fatica e alla sfiducia che innerva ogni gesto della vita quotidiana. Le domande scivolano via, o meglio, cambiano completamente campo semantico. L’inutilità e l’irrilevanza non sono più personali ma ancestrali, il confronto non è più col collega, il vicino, l’influencer, ma con organismi viventi più antichi e resistenti di quanto saremo mai, accumuli geologici ignari della storia dell’intera specie umana, orografie che possiamo studiare, mutare, intaccare, ma non eludere.

Si arranca assieme all’intero essere umano, non contro. Escludendo qualunque tipo di competitività e connessione, ogni incontro è privo di pregiudizio e denso di un’unicità data anche dalla sua labilità. I nomi hanno lo stesso valore dei nickname e i volti sono avatar non intercambiabili. Strano il mio paragone al contrario, ma evidenzia l’importanza di ricondurre l’esistenza umana al di fuori della tassonomia digitale riprodotta da una socialità astratta e categorizzante. Resistendo alla tentazione di scambiarsi i contatti, ogni reincontro è una sorpresa e un piacere atavico, privo di attriti e preconcetti.

Tutto si riduce al minimo necessario, le sovrastrutture crollano, riemerge quello spirito di autoconservazione nuovamente necessario al raggiungimento di uno scopo, se non proprio alla sopravvivenza (mai veramente in dubbio in un percorso simile, anzi proprio il mio utilizzo di questa parola dà l’idea per contrasto di quanto non siamo abituati al minimo sforzo). Tutto ciò che manca alla vita quotidiana: un obiettivo (non aziendale ma umano), oltre che la necessità del benché minimo sforzo per rimanere vivi. Mente camminiamo oltre limiti ridicoli ma che pensavamo di avere, le attività intelettive calano forse, o si affinano, si concentrano unicamente sullo scopo (quantitativo e non qualitativo), la mente viaggia e divaga ma non si distrae. Le sirene della società capitale sono lontane.

L’importanza di ritrovare i momenti di vuoto. Minuti interi in cui non si fa nulla se non riposare e guardarsi attorno, senza un pensiero. Non si guarda il cellulare, non si legge, non si guarda un film o una serie tv, non si ascolta un podcast o la musica, non si pianifica il resto della giornata o quelle successive, non si calcola neanche il percorso rimasto: ci si riposa. Con un senso di pace e leggerezza difficili da ritrovare, fuori dal tempo che scorre, fuori dalla lista delle “cose da fare”, fuori dalle convenzioni dei rapporti umani, dalle esigenze e dalle aspettative. Soli con il proprio corpo, vivi esclusivamente nel presente.

La fine è una delusione quasi, sia per la facilità con la quale si conclude un percorso simile che per il rientro in società, non traumatico ma ancora una volta: deludente. Quasi non capisco cosa farmene di quello schermo scuro chiamato televisore, sfrutto le comodità della camera di albergo in maniera primordiale. Sono ancora settato sulla necessità animalesca o poco più, e non mi pongo il problema di andare a mangiare al ristorante in pile e ciabatte. La gente mi guarda male e io non capisco (ancora) il perché. Quando torno a controllare il cellulare, di nuovo connesso, leggo i titoli di giornali, forum e social, ma tutto mi sembra così distante. Durante questo tragitto ho perso il conto dei giorni della settimana, i numeri, le ore, mai come questa volta mi sono allontanato dalla narcolessia della vita quotidiana. E mi sembra assurdo tornarvici. Il lavoro soprattutto sembra appartenere a un’altra vita, a un’altra persona, incomprensibile in tutti i suoi aspetti, i suoi problemi, le scadenze, le riunioni.

Ho finito, sono sul letto di un relais di Firenze, fra quattro giorni sarò di nuovo a Berlino, ma ancora non riesco a distaccarmi dal presente continuo, dalla tangibilità di questo letto, della penna, del quadernino blu, strumenti che non usavo da tempo e che mi ricordano la loro concretezza anche nelle mia difficoltà (anche nella scrittura non sono più abituato a un mondo non frictionless). Non provo frustrazione però negli inciampi della lentezza, nel mio essere nuovamente ancorato alle asperità del reale: non ho appuntamenti, non mi aspetta nessuno, non ho niente da fare, sono rimasto solo io e questo pezzo di carta. Non posso dire che nulla sarà più come prima (mentirei), ma mi piacerebbe rimanere agganciato a queste sensazioni, a questo diverso approccio mentale, oltre che fisico, lontano dall’afasia capitalistica che scandisce i tempi e la mia irrilevanza. Quantomeno ora, in questo momento, percepisco ancora lo shift mentale che mi ha portato fin qui e che spero non mi porti mai indietro del tutto.