Ho sempre avuto una dose di ammirazione supplementare per chi scrive romanzi che non si dimenticano di essere libri. Si può chiamare post-moderno, metaletteratura o quello che volete, ma alla fine viene da Cervantes, quindi non è proprio una novità.
Uno che non dimentica mai di stare scrivendo un libro (e che forse per primo mi ha mostrato la forza della metaletteratura (e che amo per questo e per altri motivi)) è Paul Auster. L’intera bibliografia di Auster è un ipertesto, pieno di rimandi, temi, vicende e (meta)personaggi ricorrenti, che si intrecciano con la biografia stessa dello scrittore.
In un’intervista di qualche tempo fa, Auster spiegò di sentirsi un attore più che uno scrittore, perché (parafraso/vado a memoria) prima di scrivere un libro si inventa il personaggio che lo scriverà e poi lo interpreta. Gli scrittori interpretati da Auster trovano la propria realizzazione (o quantomeno la cercano) attraverso le parole e il linguaggio, inutile dire che si può salire di un livello per trovarsi di fronte le occhiaie di Auster stesso.
L’evoluzione tematica di Auster e la sua ricerca umana/spirituale si sono però (comprensibilmente) assestate con la vecchiaia, da qui uno sguardo che punta più verso l’esterno e meno verso l’interno. I vari metalivelli sono portati sempre più in superficie, come cerchi concentrici, fino a tornare all’inizio di tutto.
Dopo l’esplorazione dell’altro e l’uscita dal proprio io (narrante) e aver chiuso il cerchio con la (doppia) biografia dedicata alla propria infanzia e alla madre (quando aveva iniziato la propria carriera praticamente con una metabiografia dedicata al padre, dopo la sua morte (L’invenzione della solitudine)), mi ero chiesto come avrebbe potuto continuare e cos’altro avrebbe potuto scrivere.
4 3 2 1 è una specie di retcon di se stesso, del proprio personaggio scrivente, oltre che un’esplorazione in forma romanzesca e ipotetica di quanto narrato succintamente in Diario d’inverno e Notizie dall’interno. Il discorso di Auster continua, ricrea il se stesso romanziere attraverso un’esplorazione multipla della propria infanzia e adolescenza, pienamente coerente col percorso intrapreso 35 anni fa, ma allo stesso tempo privo di quell’ambiguità, incertezza, perturbazione, che ha sempre caratterizzato i suoi scritti, almeno fino a Invisibile (compreso). La scrittura stessa di Auster mi sembra meno spaesata e spaesante. Nonostante la morte che può colpire in un qualsiasi momento le proprie repliche, come se colpisse lui stesso (altro grande tema mai così esplicito), o forse proprio per questo, ormai la ricerca sembra indirizzata più verso un’accettazione soddisfatta che verso un senso impossibile da cogliere.
Devo ammettere che all’inizio avevo un’altra aspettativa per il tomone che Auster non aveva mai scritto, come se potesse sublimare l’intera bibliografia e porsi su un piano altro (ulteriore), ma no: la scelta è più coerente e, per quanto tematicamente possa essere considerata onnicomprensiva, l’evoluzione dello stile e del punto di vista sono una conseguenza delle prove precedenti, interconnesse tramite i rimandi espliciti e non (alcuni personaggi da altri romanzi fanno capolino in questo, ed è come ritrovare un vecchio amico, l’ennesima conferma della bibliografia di appartenenza). Il problema principale è quindi proprio la prevedibilità, specie da parte di Auster, un autore che per quanto senta vicino è sempre riuscito a sorprendermi, ma che in questo caso riesce solo a rassicurarmi e farmi sentire a casa. L’uomo Auster, giunto alla soglia dei settant’anni ha trovato pace a qualche demone interiore e, anche se continua a interrogarsi sul caso, sulle molteplici strade della vita e della scrittura, la ricerca non gli procura più gli stessi tormenti di trent’anni fa.
Un altro narratore che ricorda sempre al lettore di avere tra le mani un libro è Paolo Nori, la cui consapevolezza va oltre lo stile caratteristico. Anche in questo caso si può parlare tranquillamente di bibliografia come ipertesto e di parallelismo con la vita dell’autore (vabbè, qui ormai cifra stilistica), ma c’è un’altra somiglianza con Auster: Nori è uno dei pochi altri autori a farmi veramente “sentire a casa”.
Fare pochissimo quindi non sorprende, nonostante Nori si continui a divertire con i generi e costruisca un giallo al contrario, bella definizione rubata da qualche parte e molto calzante. Il tema principale però sono i rapporti con gli altri, difficili con la madre di sua figlia, ma mai così difficili come quelli della sua collega Enrica Spadoni in Coltellini col proprio marito. Il parallelismo continua per tutto il libro (breve, come sempre), ma il vero giallo in questo caso è la scelta del non-pseudonimo di Paolo Onori (ahah), perché pur essendo uscito dal ciclo di Ermanno Baistrocchi ed essendo passato al narratore Marco Pietramellara, la c’è continuità tematica oltre che narrativa fra i romanzi, con i riferimenti di sempre, i soprannomi e le trovate inventive di sempre (Stàsùdadòss, la beatificazione di Stalin), gli amabili narratori contradditori di sempre. E quindi? Boh.
Curiosamente, questa settimana ho letto anche un fumetto (molto molto bello) che richiama le tematiche dell’ultimo (O)Nori: Lo scontro quotidiano (Combat ordinaire, che non si poteva tradurre in La lotta quotidiana? Non so, a me suona meglio, forse per quella canzone là di Guccini). Non conoscevo Manu Larcenet, se non per le continue citazioni di Zerocalcare (e chiaramente si può capire perché), ma qui siamo su un altro livello. Ancora una volta la scelta dei personaggi principali come alter-ego dello scrittore che porta allo sviluppo meta- e consapevole dell’oggetto-libro. Ma qui c’è tutto: i dubbi quotidiani, le ansie, l’incapacità di rapportarsi con l’altro e l’impossibilità di farlo con una società sempre più distante e incomprensibile. Le uniche sentenze tenute per il gran finale, fin troppo condivisibili poi, sono messe in bocca a uno dei tanti personaggi secondari ma supercredibili e umani.
L’umanità di ogni personaggio, persino il più bieco e incomprensibile nella nostra vita quotidiana, è un’altra delle grandissime caratteristiche di questo fumetto, dove non ci sono vincitori e vinti, ma solo i secondi, spalmati su tutta la società francese contemporanea.