Il risveglio a Müncheberg (dopo una notte faticosa passata a digerire la cena) non è dei più sereni: fuori dalla finestra il diluvio e le previsioni metereologiche relativamente rassicuranti di ieri hanno lasciato spazio a nuvole di tempesta per quasi tutto il giorno.
Andiamo a colazione sulle 8 decisi a non mollare, così vicini alla meta, e ci prepariamo a una giornata di pedalate sotto l’acqua.
La cosa più sorprendente però è scoprire che l’Hotel Sternthaler di Müncheberg è pieno di gente: a colazione contiamo almeno una decina di stanze, fra viaggiatori solitari, famiglie e l’inglese della sera precedente. Cosa facciano tutte queste persone a Müncheberg rimarrà uno dei grandi misteri della gita.
Quando siamo finalmente pronti a partire, con le borracce gentilmente riempite dalla signora della colazione (“Ich habe nur stilles Wasser!”), ci accorgiamo che la pioggia ha lasciato spazio al grigiore delle nuvole onnipresenti: l’aria è molto più fresca ma non piove più. Indossiamo le felpe sui nostri vestiti da ciclisti improvvisati e ci affrettiamo sulla strada per cogliere l’attimo. Sempre per velocizzare il percorso, decidiamo di ignorare le deviazioni per le bici e proseguire per un tratto su di una strada senza pista ciclabile, per fortuna poco frequentata. Il terreno accenna qui a qualche rilievo, difficile chiamarle colline ma quelle onde nei campi mi restituiscono una sensazione piacevole, oltre che un panorama un po’ più dinamico; il frumento prosegue fino all’orizzonte, rievocando ancora di più la sensazione di un mare giallo. Sotto alle nuvole plumbee superiamo anche cantieri, boschetti, altre filiali del supermercato più diffuso del Brandeburgo (Netto) e diverse ragazze, dotate di sedia pieghevole e ombrello. Non avevo mai visto prostitute sulla strada in Germania, ma a quanto pare la B1 fra Müncheberg e Seelow è un luogo rinomato per la professione. La cosa che mi rimane più impressa purtroppo è un tasso (o un animale simile) pancia all’aria, le zampe anteriori aperte in una posa stilizzata, quasi da fumetto, il muso all’indietro, e una lunga virgola che lo collega fino al bordo della carreggiata come un cordone ombelicale ma che altro non sono che le sue budella srotolate.
Nonostante il traffico praticamente inesistente, torniamo con piacere sulla pista ciclabile che ricomincia parallela alla stessa B1, poco prima di Seelow, paese un po’ più grande e dignitoso di Müncheberg ma ugualmente vuoto e spettrale. Superato Seelow i campi tornano al loro piattume e la ciclabile, per quanto comoda, si fa un po’ noiosa nella sua linearità. L’unico evento degno di nota in quest’ultimo tratto di Germania è preannunciato dal rumore di due grandi ali sbattere subito dietro di noi: un FLOP che non appartiene ad alcun culumbiforme, e neanche ad uno dei tanti corvi sparsi nei campi. Mi volto e vedo un grosso rapace completamente marrone spiegare le ali e allontanarsi dall’alberello appena superato. Giusto il tempo di fermare un’immagine dell’uccello nella retina e poi subito via, troppo lontano, una macchia nel cielo bigio. Mi rimane impresso il capo, sproporzionatamente piccolo rispetto alle ali, o forse dovrei dire viceversa, un’apertura alare impressionante da così vicino.
Superiamo quindi Küstrin, che non è propriamente il nome tedesco di Kostrzyn, ma un’altra cittadina, appena prima del fiume e quindi del confine. L’Oder (o Odrą) è più grande di quanto ci aspettassimo e abbiamo bisogno di tre ponti per superarlo, anche se tecnicamente superiamo un canale e due fiumi. L’ultimo braccio infatti è il Warta, dalle proporzioni simili a quelle dell’Oder stesso, ma che finisce a fargli da affluente appena un chilometro più a nord di dove siamo ora.
Il passaggio fra le due nazioni si situa esattamente sul braccio centrale dell’Oder però, quindi sul secondo ponte, a una metà non meglio definita dell’attraversamento, così che lo superiamo senza rendercene conto. Una volta sull’altra sponda una pietra miliare, un cartello, e le scritte delle insegne ci fanno notare di avere attraversato quello che una volta era un confine ben più importante. Davanti a noi resta una dogana apparentemente abbandonata, a vestigia di un passato non così lontano.
Siamo quindi sul lembo di terra delimitato dai due fiumi, passiamo sotto/attraverso le mura della città vecchia e ci perdiamo un po’ fra i sentieri e i cumuli di macerie, alla ricerca di qualcosa, senza renderci conto di esserci già in mezzo: le vie sterrate e/o semilastricate sono esattamente quelle della vecchia Kostrzyn, racchiusa dalla fortezza e completamente distrutta nel 1945. Sembra quasi di essere in una pompei messa molto peggio e completamente mangiata dalla vegetazione. Torniamo alla civiltà tramite un normalissimo cancello sul retro di un distributore di benzina, per poi proseguire sull’ultimo ponte fino alla Kostrzyn vera e propria, una città degna di questo nome, finalmente.
Gli stereotipi sono subito confermati da una famiglia seduta fuori da un locale, tutti con la birra in mano, tutti con la tuta acetata; eppure proprio questi giri in bici, questo oltrepassare i confini politici con una facilità disarmante, questo percorrere fisicamente i chilometri fra una cosiddetta popolazione e un’altra, rende ancora più evidente quanto siano fittizi i limiti imposti dalle convenzioni.
Intanto inizia a spiovigginare, una pioggia lieve ma fitta abbastanza da darci fastidio, cade una catena, non troviamo la stazione. Tutti segnali della stanchezza nostra, delle bici, della giornata. Nonostante siano da poco passate le 12 e siamo in netto anticipo sulla tabella di marcia decidiamo di non fermarci per pranzo e tornare con il primo treno.
Una volta trovata la stazione (labirintica, sovietica), dove la bigliettaia non parla nessuna lingua oltre al polacco, andiamo ad aspettare il treno delle 13.09 al binario 2, lato 1a (l’altro lato è il 3c(??)). Per orientarci all’interno dei corridoi e delle denominazioni polacche chiediamo informazioni a un uomo della sicurezza (suppongo), il quale continua a risponderci in polacco come niente fosse. Due passanti ci aiutano traducendo al volo, ringraziamo (in che lingua? tedesco? inglese?) e andiamo su per le scale, portando noi le bici questa volta, anziché viceversa.