La via più breve per superare il confine fra la Germania e la Polonia partendo da Moabit è raggiungere Kostrzyn nad Odrą.
Il modo più breve per superare questa distanza non è percorrerla in bicicletta, ma a noi piace così.
Avevamo già percorso buona parte di questa tratta l’anno scorso, per raggiungere la casa al lago di Brecht. Questa volta però la nostra prima tappa sarà Müncheberg, qualche chilometro a sud di Buckow.
Partiamo con calma sulle 10 e ci avviamo per la solita strada fino a Schönhauser Allee, quindi usciamo dal Ring e ripercorriamo i nostri passi a distanza di un anno e riconosciamo i paesaggi più o meno urbani che ci accompagnano sul tragitto: dagli agglomerati di Plattenbau fino ad Ahrensfelde, ai campi di grano e patate successivi, con le coltivazioni più indietro rispetto ai nostri ricordi (siamo in anticipo di un mese sulla pedalata dell’anno scorso). Riconosco persino il tratto in cui si incrocia il percorso dei tralicci dell’alta tensione, distribuiti a perdita d’occhio, in questa landa senza fine, definita solo dalle pareti di bosco impenetrabile.
Quest’anno evitiamo deviazioni, sia per le esperienze precedenti che per ottimizzare le nostre forze, in vista di un percorso più lungo e spalmato su due giornate. La sensazione di deja-vu permane, quando, sulle 13 circa, ci fermiamo alla stessa Altlandsberg dell’anno scorso per il pranzo e, come l’anno scorso, troviamo un matrimonio ad attenderci, anzi due!
Il grosso albero nel cortile con la sua panchina circolare non è cambiato molto, ignora le persone agghindate poco distanti e l’inspiegabile usanza di aspettare gli sposi fuori dalla chiesa con dei bastoni in mano, bastoni da cui pendono fili multicolori, posa che mi fa pensare agli invitati come a dei pescatori, in paziente attesa della loro preda. Più che delle strane (per noi) usanze matrimoniali del Brandeburgo, ci preoccupiamo dei nuvoloni che si addensano sopra di noi. Proviamo a partire, ma ci fermiamo dopo pochi metri sotto a una provvidenziale impalcatura per far passare uno scroscio estivo. Sotto alla stessa impalcatura incrociamo un uomo che ci chiede se avevamo paura dell’acqua e da dove venivamo. Ingenuamente gli ho risposto da Berlino, ma temo non fosse la risposta che si aspettava.
Appena smette di sgocciolare ripartiamo alla volta di Müncheberg, sapendo di avere ancora più di trenta chilometri da percorrere. La temperatura si è abbassata di qualche grado, ma pedalando non ne soffriamo particolarmente. L’acqua e la meta lontana ci fanno evitare i boschi e le strade sterrate, così che la nostra via prosegua meno accidentata dell’anno scorso. La nostra scelta ci permette di assistere all’effetto dell’asfalto ancora bagnato e già riscaldato dai raggi del sole, tornato ad affacciarsi oltre le nuvole: il vapore si alza nebulizzando l’acqua verso l’alto e verso di noi, che attraversiamo le nuvole basse di umidità condensata come fossero le docce dell’aquafan al contrario.
Superiamo anche i nostri paesi preferiti, Garzau e Garzin, e anche se questa volta non andiamo a visitare la piramide ci fermiamo comunque sotto un grosso albero per ripararci da un secondo scroscio, violento e breve come il precedente. Percorriamo quindi la strada lastricata che attraversa/compone la minuscola Liebenhof, talmente minuscola da risultare difficile da percepire; noi scorgiamo solo quattro case abbandonate e mangiate dalla vegetazione. Accogliamo ancora una volta con gioia il percorso ciclabile in mezzo al bosco verso Buckow, anche per la discesa che agevola la pedalata a questo punto del viaggio, ma giunti a Walsieversdorf deviamo verso la nostra nuova meta.
Müncheberg (e non Münchenberg, o Muncheberg, attenzione!) è un altro paesino, la cui parte più vecchia è racchiusa da delle basse mura del 1300. Cerchiamo un pernottamento online mentre penetriamo la cittadina e troviamo ben due hotel, nello stesso isolato, che scopriamo poi essere gestiti dalla stessa persona. La stessa persona che ci guarda e ci dice che “per una notte ha posto”, come se ci fossero davvero altri ospiti oltre a noi in questo luogo dimenticato dal mondo.
Sono le 16.30 quando prendiamo possesso della nostra stanza, pulita, con bagno, senza tende, con una carta da parati abbastanza kitsch. Dopo una doccia più che necessaria, percorriamo le mura in lungo e in largo, studiamo la strana chiesa rossa unita al campanile da un arco, di fronte alla facciata senza una vera facciata, circumnavighiamo la fortificazione e raggiungiamo il lago incorniciato da canne e salici piangenti. Per il resto gli edifici sono tutti chiusi, più o meno temporaneamente: la maggior parte delle vetrine abbandonate, nelle strade non gira anima viva, persino i forni e l’ufficio postale sono chiusi, la sensazione di essere in una cittadina fantasma è sempre più insistente. Adocchiamo un depliant fuori dall’ufficio informazioni, ovviamente chiuso, con l’elenco dei ristoranti della città, sono quattro: uno è un italiano (“dal Siciliano”) che preferiamo evitare, uno sembra più un caffè/bar/gelateria e un altro è quello dell’hotel dove pernottiamo. Il quarto non l’abbiamo trovato.
Alle 7 in punto cediamo e torniamo al ristorante, dove un inglese(!) sta già cenando, da solo. Comunque la cucina chiude alle 8.30, quindi non siamo certo in anticipo. Ci nutriamo di piatti abbondanti e abbondantemente decongelati, tranne i finferli freschi, che infatti rappresentano il punto più alto della cena, cotti in padella con dadini di speck o simili. Apprezziamo comunque i piatti e spazzoliamo via tutto senza neanche rendercene conto. Fingiamo di fare altri due passi per digerire (anche per via della luce ancora pomeridiana), ma alle 9.30 stiamo già dormendo negli ampi letti della nostra stanza, incuranti di quanta luminosità possa penetrare o meno gli strati di nuvole e tende trasparenti.