ancora e sempre

vorrei ritrovare la strada, vorrei rifugirami nel giardino di Sz., sotto gli abeti e i platani, nel padigliione per ossigenarsi, dietro al campo da tennis trascurato, nelle vicinanze della piscina in disuso, tra i cespugli di noccioli, vicino agli arbusti di crespino, al sentiero cosparso di ghiaia, al prato macchiato di luce, alla felicità di passeggiate e soste comuni, di partenze senza meta e arresti, di chiacchierate e silenzi significativi, di incertezze e decisioni schiette, di attese e compimenti preziosi, di unioni interne e separazioni esterne, ma inutilmente procedo a tentoni e cerco tra le spine delle delusioni, tra le foglie d’ortica delle rinunce, inutilmente il sangue mi sgorga dalle mani e le eruzioni mi ricoprono la pelle, non trovo, nel muro degli anni, l’entrata, non trovo più il portone dal quale mi hai adescato a uscire per portarmi con te, seguendo il richiamo della carne, nel giro intorno al mondo della passione, dal quale sono ritornato svuotato, stanco e solo.


[Imre Oravecz, Settembre 1972 (1972. szeptember)
trad. Vera Gheno, Edizioni Anfora 2019, p. 101]