Sátántangó

Il fragile arco che portava dalla sua nascita alla sua morte scompariva in mezzo alla muta lotta dei mari che rovinavano e delle catene montuose che si innalzavano, e subito ebbe la sensazione di sentire sotto al proprio corpo obeso adagiato sulla sedia quel debole tremolio che poteva essere il segno premonitore della prossima marea in arrivo, una specie di ammonimento sull’inutilità di qualsiasi tentativo di fuga; eppure a quell’impulso irresistibile di fuggire avrebbe comunque ceduto anche lui, buttandosi così nella folle corsa insieme ai selvaggi, impazziti, spaventosi stuoli di cervi, orsi, lepri, caprioli, ratti, insetti, lucertole, cani e persone – altrettante vite senza scopo e senza senso lanciate in una precipitosa corsa verso una comune e incomprensibile fine -, mentre sopra di loro il volo degli uccelli streamti e stramazzanti al suolo rimaneva ormai l’unica speranza. Per un attimo prese forma nella sua mente la vaga idea che probabilmente sarebbe stato più saggio desistere da ulteriori esperimenti e dedicare le energie così liberatesi all'”annullamento dei propri desideri”, rinunciando per gradi al cibo, all’alcol, alle sigarette, scegliendo il silenzio invece del continuo tormento di denominare le cose, raggiungendo in pochi mesi o forse già dopo un paio di settimane lo stato di un’esistenza senza scorie, che invece di lasciare indietro tracce di se stesso avrebbe potuto dissolversi nell’anonimato e definitivo silenzio che continuava comunque a chiamarlo con insistenza; ben presto però ritenne che tutto ciò fosse ridicolo, o che comunque non fosse altro che debolezza nata dalla paura e dal senso di dignità. Svuotò quindi con un po’ di angoscia il bicchierino di pálinka che si era preparato e subito lo riempì di nuovo, perché il bicchiere vuoto gli procurava sempre una certa ansia.

[László Krasznahorkai, Sátántangó,
Bompiani pp.72-73, trad. Dóra Várnai]