Leggendo L’impero del sole, di Ballard, continua a tornarmi in mente Essere senza destino, di Kertész: due scrittori che parlano della loro esperienza di bambini in campi di prigionia e nella guerra. Non è solo il tema, ovviamente, a ritornare ma anche l’approccio e le considerazioni di quei bambini. Entrambi dicono esplicitamente di non aspettarsi nulla dal mondo e dagli altri esseri umani, per cui non vivono l’esperienza con l’eccezionalità degli adulti, riescono persino fare ironia (ed è quella che fa più male, soprattutto in Kertész): danno per scontata e imparano da subito la crudeltà umana e la morte. I due bambini non provano astio verso i propri carcerieri o verso i nemici nominali determinati dagli schieramenti in conflitto, non attribuiscono valori intrinsecamente positivi alle nazionalità dei vari incontri, al massimo identificano l’intero genere umano nel vero nemico, come il professor Fuyutsuki in EoE. Il Jim di Ballard ripete almeno un paio di volte l’epifania di essere già morto, una consapevolezza che lo slega da qualunque contesto/legame sociale strutturato e lo pone di lato, al di là di tutto ciò che avviene davanti attorno dentro di lui; non ricordo se Kertész usasse le stesse parole, ma mi sembra che il concetto riverberasse anche nelle sue pagine, attraverso i suoi scritti successivi (almeno fino a quando, ne L’ultimo diario, la vecchiaia forse lo fa aggrappare a qualcosa di più terreno, schemi già visti e meno interessanti) fino a sublimare nell’esplicitazione della futilità della vita in sé, non della vita nei campi.