Una disposizione naturale, anche se inaridita, come peraltro la mia intera vita che va scemando, rimane ancora ben radicata in me: è l’inclinazione, che fu particolarmente viva nella fanciullezza e nell’adolescenza, a non temere di trascorrere le ore del giorno fantasticando. A chi non ha mai sperimentato quella particolare forma di vita in cui la fantasia esercita, per sua essenza, un’influenza in ogni manifestazione interiore, tutto questo potrebbe sembrare soltanto pericoloso; e così mia nonna e mio padre, temendo per il mio futuro e presumibilmente sopravvalutando le mie doti intellettive, vollero destarmi dal mio fantasticare, liberando le mie ali di giovane libellula dalla tela di ragno che mi avvinceva e che avrebbe potuto condurmi alla morte. Speravano in tal modo di consentirmi di volare liberamente, secondo la mia natura. Allontanarono dunque ad me tutto ciò che ai loro occhi appariva insolito. Il mio libro preferito, Le mille e una notte (più che dalla Lampada di Aladino o da Sinbad il marinaio, il mio animo infantile era attratto dalla malinconica bellezza delle scene, tipicamente mediorientali, della vicenda in cui si narrano le dissolutezze della sposa del sultano Schahriar e della Storia del Giovane Re delle Isole Nere), i volgari racconti dei Grimm, le storie di strani, diabolici idoli dei Mari del Sud, il cofanetto per gioielli che io e mia sorella trasformavamo in bara per una bambolina giocando al suo funerale, e tutti gli altri oggetti dei nostri trastulli che apparivano insani agli occhi degli adulti, furono eliminati dal primo all’ultimo. Ma, a ben riflettere, esiste forse un criterio universalmente valido di sanità e normalità?
[Yukio Mishima, Storia di un promontorio, da La dimora delle bambole (Hina no yado), 1963,
trad. Lydia Origlia, SE 2002, p.13]