Prokof’ev, Ravel, Prokof’ev

Sabato sera raggiungere la Waldbühne è stato più complicato del previsto, non tanto per i mezzi mediamente affollati e la calura fuori scala per Berlino (il terrore di questa manifestazione di solito è l’acqua non il caldo), quanto per le difficoltà all’arrivo.
Scendiamo per primi dalla S-Bahn e marciamo spediti su per le scale e via per i sentieri, seguiamo le indicazioni, tallonati da una mandria dal passo di poco più tranquillo (anche per l’età media decisamente superiore alla nostra), superiamo una prima coda di persone che pare non riguardarci per arrivare infine al primo ingresso, preso d’assalto in un groviglio di arti e vestiti sudaticci. Sotto al sole ancora alto, ci spostiamo all’ingresso successivo e ci facciamo strada fino al primo controllo dove l’addetto alla sicurezza, armato di un pratico foglio A4 plastificato, ci fa notare che il nostro zaino non rientra nelle misure del foglio stesso, limite massimo consentito all’ingresso. Neanche i controllori Ryanair degli anni ’00. Da notare che avevamo studiato online prima di venire (sappiamo ad esempio che non possono entrare bottigliette superiori al mezzo litro), ma questa misura ci coglie impreparati. Niente da fare, il ragazzo è inamovibile, la folla dietro di noi preme, il caldo anche, dobbiamo tornare alla fila ignorata precedentemente per lasciare il nostro zaino al guardaroba (al modico prezzo di 3€) e portarci dietro bottigliette, portafogli e cellulari in mano/tasca.
Quando riusciamo finalmente a entrare, a mezz’ora scarsa dall’inizio del concerto, la Waldbühne si spalanca davanti ai nostri occhi: una voragine più che un anfiteatro da 22.000 posti (circa). Come il suo analogo e vicino Olympiastadion, è stato costruito dai nazisti in una conca del bosco di Schanzenwald, sviluppato sotto al livello del suolo, di modo che al momento del nostro ingresso il palco si presenti già una chimera lontana e più di diecimila persone si frappongano fra noi e i fonici che armeggiano attorno a qualcosa di impossibile da distinguere.
Ci affrettiamo alla disperata ricerca di due posti vicini, nel nostro settore di appartenenza, ma gli spazi vuoti sulle panche sono rari e quasi sempre occupati per qualcuno che deve ancora arrivare. I raggi del sole che ancora si affacciano da sopra i rami più alti del bosco non aiutano, ed è sempre più evidente come la convivenza forzata e crescente con i nostri simili ci stia portando più verso l’esasperazione che la modernità di cui parlava Walter Benjamin, a meno che le due cose non coincidano. Una volta trovato posto su una delle panche, pur non comodissime, riacquistiamo un po’ di serenità. A breve assisteremo al famoso concerto estivo dei Berliner Philharmoniker che dagli anni ’90 si tiene qui alla Waldbühne, al cospetto di un pubblico molto più antico e difficile di qualunque berlinese o essere umano tutto.
Mentre osserviamo le cime degli alberi sovrastare il palco, popolato dai primi violini, adocchiamo anche gli enormi cestini portati dagli altri spettatori, borse decisamente più grandi del nostro zaino, e il sole continua a ricordarci del caldo fuori stagione, presagio di un cambiamento climatico ben più epocale di quanto siamo disposti ad ammettere. Il sudore cola sulla schiena di tutti i presenti, che si riparano come possono dietro ai pieghevoli del programma: Prokof’ev, Ravel, Prokof’ev. Leutnant Jijé, Shéhérazade, Romeo und Julia.
Socchiudiamo gli occhi per distinguere le figurine nerovestite che iniziano a popolare il palco, aspettiamo l’ingresso del direttore, una formica senza volto in più, laggiù in fondo all’anfiteatro; la sottile sgradevolezza di tutto ciò che ci circonda da vicino, fumo delle sigarette compreso, ben presente nei nostri sensi.
È solo quando le prime note si spandono nell’aria, le trombe timide, i tamburi con la loro marcetta, quindi i flauti, la tuba, i tromboni, presto accompagnati dagli archi, strumenti così lontani nello spazio da risultare quasi invisibili. Per qualche secondo cerco di seguire i movimenti con gli occhi poi mi lascio andare alla musica che riempie l’anfiteatro, risuona in ogni particella che mi circonda e compone, non esiste più nulla al di fuori delle melodie e dei timbri che compongono l’essenza stessa delle cose.

Successivamente penserò a quella sera in cui, persi in una Berlino notturna più tiepida che calda, ci ritrovammo stanchi e privati di ogni energia vitale nell’isola dei musei, in occasione della Lange Nacht der Museen; dopo un giorno intero passato a fare i turisti con amici in visita, all’una di notte l’unico desiderio pareva quello di raggiungere il letto più vicino. Eppure ci spronammo ad entrare nell’Alte Nationalgalerie per dare un’occhiata, ricercare la bellezza un’ultima volta prima di chiudere gli occhi sul mondo. Fu lì che davanti a due enormi quadri di Friedrich dimenticammo ogni tipo di sonnolenza, per poi uscire dal museo più vispi di prima.

Che bello quando l’arte eclissa persino i bisogni primari.