Dopo una lettura episodica durata mesi (anni?), ho finito A guide for the perplexed, il tomone-intervista di/con/su Werner Herzog.
Ripercorrere la corposa e avventurosa filmografia del regista tedesco è ovviamente molto interessante e gli aneddoti si sprecano. Nel frattempo ho colmato qualche lacuna, anche fra i film più brevi, e ne colmerò altre nei prossimi giorni, la lista sarebbe lunghissima e il libro ha alimentato la mia curiosità verso l’opera oltre che verso l’uomo. Un libro che in questo caso è una propaggine più che mai adeguata, visto l’amore classico di Herzog per la letteratura e il gesto stesso della scrittura (vedi i suoi taccuini di Aguirre).
L’intervista non riserva grosse sorprese per chi conosce un minimo di chi si sta parlando: Herzog è un personaggio difficile e sicuro di sè (fin troppo), con una sensibilità incredibile e capace di grandi verità (per quanto mi riguarda). Il fatto che sia dotato di una sensibilità che risuona nella mia mi ha fatto particolarmente apprezzare certi passaggi, pur sapendo che forse di persona non avrei apprezzato l’integerrima sicumera (per non dire la testardaggine) di una persona simile. Ciò che mi stupisce e mi fa un po’ storcere la bocca è proprio la dichiarata mancanza di autointrospezione; mai messosi in discussione, Herzog tira dritto per la sua strada, che in un modo o nell’altro lo porta sulle vette più alte e nei luoghi più reconditi per/dell’essere umano. Quindi alla fine bravo lui.
Anche qui però sento quel tarlo rodermi i pensieri (come in The art life su David Lynch): se non fosse riuscito a fare quello che ha fatto sarebbe stato solo uno sbruffone? Quanto/cosa separa il genio dal coglione? Davvero solo il successo finale? E anche in caso di fallimento, sarebbe giusto definirlo “coglione” o solamente “sfortunato” o anche altro di meno assolutorio ma neanche così lapidatorio?
Sicuramente sbaglio io anche solo a pormi queste domande, figlie della mia stessa insicurezza, così lontana dall’incrollabile fiducia (in se stesso) di Herzog. Si tratta in ogni caso di persone al di fuori della società, che la travalicano ed esplorano i limiti dell’essere umano, andando alla ricerca di un bello che si fa trascendenza, in un modo o nell’altro. Non so se è l’apparente sincerità con cui si adoperano, l’abbacinante bellezza dei loro risultati, la (non-)salvezza che promettono attraverso le loro opere, ma nonostante tutte queste domande io continuo ad amarli e a trovare anche una qualche ispirazione nelle loro parole.
Questo libro in particolare è citato/considerato più volte come ispirazionale, pur non avendo quasi nulla di esplicito al riguardo se non la figura stessa di Herzog, il quale dal canto suo prende atto, ma raramente si esprime esplicitamente al riguardo. Gli unici (improbabili) consigli diretti delle 500 pagine sono riportati nel retro di copertina. Se si cerca un manuale basta leggere quelli, se si vuole andare più a fondo è il caso di dire che è un viaggio avventuroso, anche se solo su carta.
Chiudo con due parole dello stesso W.H. (tratte da un’appendice-prosa-riflessione del librone) che secondo me lo rappresentano molto bene, anche nelle sue contraddizioni.
When it is all up with Germany, when human beings cease to exist, and ants and cockroaches have taken over, and subsequently algae in the oceans that have started boiling; when the earth is then extinguished and the universe goes dark, collapsing in on itself to nothing, it is possible that something abstract will remain behind, perhaps something akin to a state of happiness. But I have a deep fear inside me that what will fill the darkness and the space that no longer exists will be a form of stupidity. It does not need a particular place, it is everywhere. Happiness, at least, requires open space.