Fin da bambino mi sono chiesto perché mai il lavoro (inteso come impiego, non come risultante di forze) fosse considerato come un concetto positivo e nessuno mi ha mai dato una risposta soddisfacente.
Ho avuto poi modo di cogliere in prima persona le contraddizioni del mondo del lavoro su così tanti livelli e in così tante forme che i miei dubbi sono divenuti certezze. L’unica cosa rimastami ancora incomprensibile è come nella narrazione mainstream il mio pensiero non trovi riscontro e si sentano cose come “bisogna creare posti di lavoro” “bisogna lavorare di più” e “sei fortunato se hai un lavoro”.
Ciò di cui abbiamo bisogno non è un lavoro, ma i soldi che riceviamo in cambio (proprio perché qualcuno usufruisce dei nostri servizi, del nostro tempo, in definitiva ci accorcia la vita), e alla fine non abbiamo bisogno neanche dei soldi, ma delle cose che compriamo con essi. Tralasciando quest’ultimo passaggio, la narrazione mainstream resta insensata anche a una primissima analisi (qui potrei partire con tutto un altro discorso sul fatto che ci sono modi di procurarsi i soldi per campare che non sia quello strettamente di lavorare, almeno nel senso comune del termine, ma lascio stare in questa sede).
Inoltre, a livello globale (e a livello personale ne ho avute le prove molte volte), un’alta percentuale dei lavori che svolgiamo sono inutili o addirittura controproducenti, di modo che nessun sistema si avvantaggi in nessun modo dei loro servizi. Le persone che adempiono questi compiti potrebbero stare a casa sul divano ed essere pagati uguali che l’umanità non se ne accorgerebbe neanche e, anzi, a volte ne trarrebbe giovamento. Infine, grazie allo sviluppo tecnologico degli ultimi decenni, una percentuale che hanno stimato fra il 50% e l’80% dei lavori che svolgiamo ora potrà essere automatizzata nei prossimi anni. Le nuove tecnologie creano nuove mansioni ma evidentemente in numeri molto minori. In tutto questo la popolazione mondiale cresce costantemente.
Non mi sembra che ci voglia un genio per capire che c’è qualcosa che non va nel mondo del lavoro (che poi è quello su cui si basa la nostra società). Eppure mi sembra di essere immerso in un mondo di sonnambuli che non vedono o fingono di non vedere, arrivando persino al parossismo di politici e non che insistono convintamente a sostenere un sistema che palesemente non può funzionare e non può che peggiorare nel prossimo futuro (anche per via di altri modelli matematici non slegati da questo discorso, come quello sulla disuguaglianza economica sempre maggiore). E poi ci si stupisce che vincono le forze antisistema. Ma vorrei evitare il discorso prettamente politico (che pure nel saggio in questione si fa).
Al netto del difetto comune alla maggior parte dei saggi americani (l’estrema ridondanza), “Inventare il futuro – Per un mondo senza lavoro” di Nick Srnicek e Alex Williams mi ha aiutato a strutturare un pensiero che è sempre stato mio, illuminandomi su dettagli storico-politici (l’ascesa del neoliberismo, la costruzione dell’egemonia, la Mont Pelerin Society) e su meccanismi sociali che non avevo mai considerato sotto questa luce (la carcerazione come controllo del surplus), passando per concetti sui quali non avevo riflettuto abbastanza (libertà negativa (libertà da interferenze arbitrarie) vs libertà sintetica (capacità di agire sul mondo)). Sono ignorante e non ho molti altri riferimenti, ma mi sembra i due accelerazionisti in questione abbiano contestualizzato il pensiero marxista per attualizzarlo e divulgarlo, evidenziando le contraddizioni e le storture della nostra realtà contemporanea. Non sono certo i primi a farlo, ma questa parte riesce senz’altro molto bene, facendomi sentire meno solo e dandomi i mezzi per inquadrare con dati e riferimenti le mie perplessità. La parte propositiva poi (forse la più importante negli intenti degli autori) è dichiaratamente utopistica e non so quanto plausibile, ma rimane una direzione aperta e fiduciosa verso il futuro (atteggiamento quasi impossibile da vedere in uno schieramento politico qualsiasi al giorno d’oggi), e in ogni caso è sempre meglio che perseverare a occhi chiusi in una direzione matematicamente insostenibile.
Per quel che vale, i punti cruciali (riduzione della settimana lavorativa + rifiuto dell’etica del lavoro + piena automazione + reddito base universale) fissati come obiettivo mi sembrano interessanti e condivisibili (i primi due almeno sacrosanti), per quanto di difficile realizzazione, soprattutto l’ultimo. È giusto chiarire che il reddito base universale non dovrebbe essere slegato agli altri punti e neanche usato per smantellare il welfare (pensiero già passato per la mente di più di qualche neoliberista americano, per arrivare alla distopia finale); al contrario, il welfare non dovrebbe essere in discussione in nessun caso (come dice anche Federico Campagna nel suo L’ultima notte, al contrario di Raffaele Alberto Ventura nel suo pamphlet, che ancora una volta delinea bene una condizione sociale contemporanea, ma poi giunge a conclusioni/soluzioni aberranti), anzi sanità e istruzione dovrebbero essere i punti cardine per ridurre la disuguaglianza e costruire un futuro.
Non mi voglio addentrare però in questi discorsi né ho intenzione di propagandare o difendere alcuna idea politica. La cosa che mi farebbe piacere sarebbe quantomeno il riconoscimento globale e istituzionale del fallimento del capitalismo, ma credo che dovrò aspettare ancora qualche anno.
p.s. ultimissima nota: le doppie copertine trasparenti delle Edizioni Nero mi fanno tornare bambino e risvegliano quella curiosità tattile-percettiva per l’oggetto libro a rischio di estinzione (a proposito di accelerazionismo)