È fin troppo scontato fare le condoglianze al capitalismo, evidenziarne i difetti, preannunciarne la fine, ma d’altro canto la narrazione mainstream sembra continuare a usare slogan vecchi di mezzo secolo, con un certo nostalgismo incomprensibile (o comprensibile solo per motivi anagrafici), mentre il mondo continua ad accelerare in una direzione altra (sospendo il giudizio di valore, ma diversa di sicuro), passando di crisi in crisi senza soluzioni né alternative all’orizzonte.
Tornare indietro non è possibile, ma fare qualcosa affinché la rivoluzione tecnologica non ci travolga da un giorno all’altro nei nostri letti dovrebbe essere quantomeno auspicabile, anticipare il crollo del sistema con una transizione verso un nuovo paradigma ragionato anche, quantomeno proporre alternative plausibili, prendere coscienza del mondo che ci circonda, auspicare una direzione qualsiasi che sia coerente con le premesse che viviamo quotidianamente. Tutti infiniti che invece si scontrano con una realtà delle cose frustrante, che lascia il mio essere cittadino in una pozzanghera di impotenza davanti a un dibattito e una narrazione surreale, più lontana dalla quotidianità della fantascienza distopica del secolo scorso.
A proposito di fantascienza, è sempre più difficile immaginare un futuro lontano, perché il futuro ci crolla addosso, rendendo implausibili o antiquate le nostre fantasie, ma ancora più difficile è immaginare un alternativa, che infatti nessuno osa abbozzare o pronunciare. Asimov ha ceduto il posto a Dick come riferimento, mentre i romanzi contemporanei diventano storici prima di comparire sugli scaffali delle librerie (ahah).
All’interno di un modello matematico che va verso un punto di rottura inevitabile, di una società fragilissima e sempre più precaria in ogni sua incarnazione, di un ecosistema che minaccia un cataclisma irreversibile, ancora si venerano divinità artefatte, consegnando le chiavi della nostra civiltà a entità superiori e immutabili, nelle cui credere ciecamente, anche quando ogni evidenza mostrerebbe il contrario. Viviamo in un sistema sociale cieco e moribondo, dove le storture e i paradossi sono talmente tanti e su così tanti livelli che risulta difficile parlarne con coerenza.
In questo senso, alcuni passaggi del libro di Campagna toccano un temo a me molto caro e cadono a fagiolo per mettere in ordine certe mie esternazioni. Trovo una certa risonanza nelle righe di questo pensatore (arg), a prescindere dal mio apprezzamento per il libro e il mio (pur non totale) allineamento con le sue idee.
Siamo ormai coscienti del fatto che l’economia globale venga ciclicamente devastata da crisi di sovrapproduzione. Il fiume di offerta che sgorga da fabbriche e uffici al ritmo del dogma della crescita illimitata non è bilanciato da un livello di domanda equivalente, come dovrebbe essere il caso in un’economia capitalistica funzionante. Ogni tot anni si rendono necessarie una crisi o una guerra di vaste proporzioni al fine di disfarsi dell’offerta in eccesso. Produciamo troppo, lavoriamo troppo, e nel far questo distruggiamo la nostra stessa economia. Una situazione simile ma qancora più drammatica caratterizza il rapporto tra produzione e risorse naturali. Al fine di mantenere gli attuali livelli di produzione e di consumo industriali siamo gradualmente e ostinatamente distruggendo l’insieme di risorse naturali che chiamiamo ‘ambiente’. Sappiamo ormai tutti come la sovrapproduzione non devasti solo l’economica globale, ma anche e soprattutto al biosfera del pianeta. Il nostro eccessivo Lavoro non porta soltanto a una crisi economica, ma a una catastrofe ambientale. Si potebbe obiettare che, quanto meno, lo sviluppo economico abbia messo a nostra disposizione una quantità di tecnologie che ci consentirebbero di fare a meno della gran parte del lavoro umano, liberandoci così da questo fardello biblico. Ma invece di trarre profitto dalla possibilità di riservare l’ozio agli umani e destinare il lavoro alle macchine, ci troviamo oggi a dover competere contro di esse al punto di dover adeguare al loro livello le nostre richieste e le nostre aspettative. Ci ritroviamo costretti a lavorare tanto quanto le macchine, e nel farlo ci stiamo progressivamente trasfromando in nient’altro che una tecnologia produttiva di secondo piano.