Esercizi di stile: horror

Mi incammino per la strada ventosa con la mia bicicletta cigolante. Il vento ulula e mi strappa il cappello, non riesco neanche a sentire Marilyn Manson con le mie cuffiette. La bici sembra cedere verso la fine, vecchia e arrugginita com’è, ma infine riesco a nascondermi nel mio ufficio, giusto prima che un violento temporale si abbatta su di me.
Fuori imperversa il maltempo, i fulmini cadono più vicini di quanto mi aspetti, ma devo comunque accendere il computer della mia scrivania. Esito ancora un po’, tremante per i boati, quando salta la luce di tutto l’edificio. Fa anche più freddo di quanto ricordassi, per cui mi tengo il cappotto addosso. Una voce pare uscire dall’oltretomba, ma è solo quella gracchiante del capo reparto. Lo raggiungo nella stanza accanto, ma non vedo nessuno dietro alla scrivania. Le ombre si spostano ogni volta che un fulmine illumina il quadro della finestra, anche i mobili paiono ghignare e deridere la mia sorpresa ad ogni tuono che rimbomba nei corridoi. Mi guardo attorno tremante, e cerco umilmente il mio capo reparto. Una mano mi tocca la spalla, proprio mentre mi stavo chinando sull’antica scrivania.
È lui! Troneggia alle mie spalle e il suo sguardo corrucciato pare chiedermi conto di tutti miei errori, presenti, passati e futuri. Non dico nulla e lui si siede nella grande sedia di pelle, all’altro lato della scrivania intarsiata. Non avevo mai notato quella dansa macabra scolpita sulle gambe del tavolo, ma la mia attenzione viene subito richiamata dallo schiarirsi della gola del mio luciferino capo reparto. Anche seduto mi supera di una spanna abbondante e pare diventare sempre più grande mano a mano che rimaniamo in silenzio a guardarci. La sua ombra copre quasi tutta la parete e non ha bisogno di dirmi nulla per farmi capire che quello non è il mio posto. Non attendo che apra la bocca per andare a rifugiarmi nel mio posto di lavoro.
Le luci non sono ancora tornate, ma il mio computer è acceso. Ho ricevuto una mail misteriosa, in un alfabeto che non conosco. Guardo il contatto di chi me l’ha mandata, ma noto solo l’immagine di un uomo leggermente deforme. C’è nel suo aspetto, nel suo viso, qualcosa di anomalo che non riesco a identificare. Forse sono le due metà del volto troppo uguali, come se l’immagine fosse ottenuta specchiando solo mezza faccia. Guardo sul desktop e c’è l’allegato, senza che io mi ricordassi di averlo scaricato. Lo apro, impaurito dal contenuto, ma in realtà vedo solamente un file di testo vuoto. Non capisco perché, ma lo inoltro al mio capo, preso da un raptus che non comprendo.
Appena compiuto questo gesto senza senso, un altro fulmine mi risveglia dal torpore presomi non appena seduto davanti al mio pc acceso. Lo schermo si spegne di nuovo, l’intero ufficio fa eco al tuono che pare non finire più. Mi chiedo solo per un momento dove siano tutti i miei colleghi e perché oggi non si presenti nessuno, ma subito ripenso a cos’ho appena fatto. Corro dal capo reparto per attendere la sua rabbiosa reazione, cercare una scusa plausibile, o semplicemente provare a comprendere cosa stia succedendo al lavoro. Quando passo dalla sua porta, noto in un angolo un orologio a pendolo che indica le quattro di pomeriggio. Com’è possibile? Sono sicuro di essere tornato dall’ufficio del capo a metà mattinata, ed essermi seduto al mio computer solo per pochi minuti.
Non riesco comunque a fermare il mio slancio e mi trovo a bussare alla porta del mio capo reparto, senza più averne alcuna intenzione. L’anta cede alla seconda bussata. La stanza è di nuovo buia e vuota, sulla scrivania una candela, sicuramente per via delle luci fulminate. Mi avvicino cauto, senza vedere nulla oltre il mobile antico, e solo all’ultimo noto il volto gigantesco e pieno di ombre del mio capo fissarmi, immobile. Mi fermo anch’io, congelato da quello sguardo di fuoco. Non ho il coraggio di voltarmi e fuggire ancora, ma non ce n’è bisogno, perché questa volta la sua bocca gigantesca si apre.
Sembra aspirare la fiamma sul tavolo e con essa tutta la luce della stanza e forse dell’edificio intero, ma poi sbuffa due semplici parole di ringraziamento e congedo. Parole inaspettate, che cozzano con il suo sguardo e la sua espressione, ma non me le faccio ripetere due volte. Prendo la porta ed esco, salvo almeno per oggi.

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