«Noi collaboratori ci chiamiamo “partner”» si legge nel mission statement della catena di caffetterie Starbucks. Howard Schultz, miliardario, cofondatore della multinazionale e suo azionista di maggioranza, o chi si occupa di comunicazione nella sua azienda, continua in preda all’entusiasmo: «Perché non è solo un impiego, è la nostra passione. Siamo felici di accogliere la pluralità tra di noi e di creare un ambiente di lavoro in cui ciascuno può essere quello che effettivamente è. Ci comportiamo sempre con rispetto e dignità reciproci e consideriamo questi standard elevati un nostro dovere».
Ogni dipendente di Starbucks conosce il mission statement, che occupa una sola pagina e viene affisso in tutte le filiali del gruppo. Iris trova particolarmente irritante la frase sui «partner», cioè su di lei e i suoi colleghi. E io posso capirne il motivo, mentre in una calda giornata d’estate mi racconta ancora una volta cosa significhi lavorare presso il più grande distributore di caffè del mondo.
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Un coordinatore ha più volte aperto in pigiama alla collega che arrivava per prima per il turno del mattino. Dormiva nel locale, usando i sacchi di caffè come cuscini. Questo succede quando la programmazione degli orari di lavoro non può essere rispettata a causa della perenne scarsità di personale. Uno shift supervisor mi racconta che si doveva essere sempre pronti all’evenienza «che il tuo store manager ti svegli anche in piena notte, telefonandoti perché ti vuole lì per il primo turno. Per uno shit (sic!) supervisor questo significa che tutto il tuo tempo appartiene a Starbucks. Non è solo un “impiego”, è la nostra “passione”, ma solo nel senso di patimento!».
[Günter Wallraff, Nel meraviglioso mondo del caffè – Starbucks senza filtri da Germania anni dieci – faccia a faccia con il mondo del lavoro (Aus der schönen neun Welt. Expeditionen ins Landesinnere), 2009,
trad. Sara Mamprin, L’orma editore 2013, pp.49,51]