Berlinale 65, il reportage: quinto giorno

Ultimo giorno di proiezioni, nessun biglietto in tasca, i premi li hanno dati ieri, c’è tempo solo per recuperi tardivi e casuali. Oggi danno un sacco di film in concorso, quindi bisogna approfittarne (anche Herzog, ma è la mattina alle 10:00 e noi siamo in vacanza).

Facendo i fatti nostri, passiamo vicini a quel teatro-monumentale-che-da-fuori-sembra-anche-un-po’-una-chiesa di Friedrichstadt-Palace, cinema che non ho ancora visitato (vedi discorso del giorno quattro), ma che la vecchia in fila del giorno due mi ha indicato come uno delle sale più grandi e dove è più facile trovare biglietti. Così è. Sono (molto) tentato da El Club delle 22:30 al Kino International, ma trovo inaspettatamente due biglietti per l’ultimo film di Greenaway (a soli 6 euro poi, sta cosa devo ancora capirla, non so se vale per l’ultimo giorno o cosa) e li prendo al volo.
Torniamo la sera senza avere cenato (tema ricorrente di questa trasferta) e c’è chi pensa di chiedere invano un sacchetto di patatine (o almeno un bretzel!) al bar sciccosissimo del Friedrichstadt-Palast. Bar sciccosissimo che comunque serve panini come piatto forte, come è ovvio, siamo pur sempre in Germania.
Vabbè, al terzo tentativo riusciamo a entrare nella gigantesca sala (alle prime due entrate era tutto pieno) e in effetti vale la pena di vedere questo teatro, anche da quassù. Per fortuna almeno non siamo troppo laterali, ci sono posti che mi chiedo se vedano qualcosa dello schermo, boh. In questo clima un po’ affollato, arrivato all’ultimo giorno di proiezioni (e al mio ultimo film), è giunto il momento di parlare dei fenomeni più sconcertanti delle sale della Berlinale (a parte le risate sbagliate).
Il primo è quello che mi lascia più perplesso: la tosse che si scatena fra la folla allo spegnersi delle luci e si placa all’inizio del film. Uno dà il via e poi è un coro di *coff coff* e simili per tutta la durata del buio di loghi e ringraziamenti. È stato così praticamente per tutte le proiezioni a cui sono andato. Va bene che a Berlino fa freddo, non c’è dubbio che si possa essere raffreddati, ma ci dev’essere un collegamento psicofisico che va al di là della mia comprensione fra il buio e la tosse.
Il secondo fenomeno è vagamente più accettabile: la gente che se ne va. Cioè io non lo trovo comprensibile, ma me lo giustifico con chi vede i film al festival per lavoro, e magari deve vederne tanti ogni giorno, per cui è vitale che se ne vada se una proiezione gli fa schifo. Però in generale il numero di persone che si alza ad ogni film è troppo alto per i miei gusti. Per questa proiezione poi il numero triplica, specie durante le scene di sesso omosessuale piuttosto esplicite, e la cosa mi fa molto sorridere (sarei stato molto curioso di assistere alla proiezione di Nymphomaniac uncut l’anno scorso).
eisenstein-in-guanajuatoIl film appunto: Eisenstein in Guanajuto è qualcosa di diverso da quanto visto finora (in realtà non si può proprio dire che abbia visto un film simile all’altro). Non ha paura di affrontare il mito del regista russo e anche di decostruirlo, e renderlo grottesco, quasi ridicolo. Ma al di là delle trovate provocatrici (non so se nell’intenzione, ma sicuramente nei risultati), ciò che colpisce sono le innumerevoli carrellate, gli affreschi, gli split-screen, l’utilizzo del materiale d’archivio e della musica. Sinceramente, degli split-screen avrei fatto anche a meno. E anche di qualche carrellata. Ma bellissima quella (quasi) finale che insegue gli attori nei tanti diversi quadri creati dal portico dell’hotel, dove finalmente anziché una camera che gira davanti all’immagine, abbiamo la stanza che ruota davanti alla telecamera. Detta cosí forse non é del tutto chiara, ma (giustamente) sono scene che vanno viste più che descritte. La formazione da pittore e le idee di Greenaway (ho sentito di recente un’intervista illuminante) sono radicali e si riflettono sulla sua produzione, creando mostri (non in senso dispregiativo) difficili da incasellare e a volte persino da vedere, ma in questo caso mi sono divertito e ho molto apprezzato paradossalmente anche ciò che va oltre l’immagine a volte grottesca e dissacrante: le parole.

quinto giorno

 

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