Que Pasa

Il Que Pasa dentro al CinemaxX di Potsdamer Platz.
Non so che aspettative si possano avere entrando in un luogo simile. Chiamarlo ristorante non è sbagliato solo dal punto di vista prettamente meccanico-ontologico. Chiamarlo ristorante messicano è sbagliato da qualunque punto di vista. Guardo persone accalcarsi nei tavoli troppo vicini e studiare menù vuoti. Osservo me stesso mescolarmi con la folla e fare lo stesso, pur fin troppo cosciente della situazione contingente e di quanto già detto. Non riesco a sopprimere un moto di disprezzo per i vicini che ordinano il vino in un posto simile, e per tutti coloro che li imitano. Se loro sono tedeschi, io cosa sono? Sento la mia voce ordinare qualcosa con un nome sbagliato a un cameriere indiano assunto perché probabilmente agli occhi del turista white trash teutonico rientra nella categoria etnico tanto quanto un messicano. La tentazione di tornare sui propri passi è data solo dall’inerzia e da una vaga pressione sociale di rendere le proprie azioni conseguenti, quasi come se non si volesse deludere il cameriere indiano che viene a chiedere l’ordinazione ogni minuto. Forse lui stesso è stato preparato a farlo, per inculcarci questa stessa pressione studiata a tavolino, come quasi tutte le reazioni sociali del ventunesimo secolo. Fosse vero, il mondo sarebbe più ordinato, se non altro. Ci ripenso e mi rimangio anche quest’ultima affermazione. Non riesco comunque ad alzarmi dal tavolo e ad evitare di ordinare una cosa qualsiasi da un menù che non vorrei tenere in mano. Un’altra spinta all’ordinazione è data anche dalla volontà di uscire da questo luogo il prima possibile.
Nonostante le aspettative siano praticamente nulle, in questi luoghi vengono puntualmente deluse. Ho avuto una sensazione simile, ma ancora più traumatica, coi pasti in aereo. Non mangerò più nulla in aereo. Mi riprometto sempre anche di non entrare mai più in luoghi simili a quello dove ho appena ordinato, ma poi ci ricasco: convenzioni sociali, comodità, quella stessa stupidità che evidenzio e disprezzo negli altri. Non faccio meno schifo del mio prossimo, ma questa non è una grande novità.
Il piatto arriva in pochi minuti, forse avrei potuto contare i secondi. Lo guardo e temo ci sia stato un errore. Rimango in questo limbo di domanda solo per un attimo, rendendomi conto che l’errore l’ho commesso io, quando ho ceduto all’impulso di entrare in un luogo simile. La definizione di quello che mi sta davanti non importa più di tanto, è la sua consistenza, la sua composizione, a farmi piegare le spalle e gli angoli della bocca verso il basso, lasciandomi senza il benché minimo desiderio di provare ad assaggiarlo. Ciononostante (una parola che mi lascia forse la stessa perplessità del piatto che mi trovo di fronte, ma con una connotazione meno negativa), infilo la forchetta nel composto organico infilato nella terrina davanti a me. Il mio problema è che non sono capace di lasciare il cibo nel piatto, cosciente che verrà buttato, tanto meno quando l’ho pagato. È una reazione istintiva, non una scelta morale e consapevole, qualcosa che mi si è palesato fin da bambino. Non è tirchieria, o almeno non lo era quando non ero io a pagare i piatti che mi venivano serviti, e non è neanche un’ambigua attenzione all’ambiente o risposta all’infamante accusa (per fortuna mai rivoltami) del “pensa ai bambini africani”. Penso alla mia compulsione e cerco di analizzarla, mentre ingurgito un cibo che non voglio in un posto dove non voglio stare. Osservo i tavoli dei miei vicini e noto che, se non altro, l’aspetto dei loro piatti è qualcosa di più accettabile, e riconducibile a una forma in qualche modo conosciuta. Per un momento, invidio gli habitué di questi avamposti del turismo di massa, safe place per chi non vuole sporcarsi davvero con qualcosa di diverso o affrontare la benché minima difficoltà di percorso, ne invidio l’ingenuità e l’intrinseca preparazione, la loro scelta in qualche modo conseguente che li ha portati a un risultato che alla fine dei conti devo ammettere come migliore del mio. E allora, per un attimo soltanto, mi chiedo se non sia io ad aver sbagliato tutto, e che questi non siano davvero meno ingenui di quanto avessi immaginato, ma anzi siano consapevoli a un livello superiore, come quella stupidità che (online) fa il giro e diventa intelligente presa in giro della (presunta) intelligenza. Poi torno a vedere i loro bicchieri di vino scadente pagati a peso d’oro, gli apprezzamenti degli avventori nel degustarsi piatti costosi e irriconoscibili, scaldati al microonde qualche secondo prima, i sorrisi tirati dei camerieri indiani che sfrecciano da un tavolo all’altro, e no: concludo di essere davvero in mezzo a un branco di imbecilli e di farne pienamente parte.